domenica 20 dicembre 2015

Al Carroponte, la disfida degli champagne


Non si possono avere dubbi quando ad accoglierti è un tale schieramento di calici pronti a darsi battaglia a colpi di bollicine.

A tutto Champagne - la serata organizzata da Oscar Mazzoleni, patron di Al Carroponte e Alfredo Leoni di Top-Wine - è veramente un regalo di Natale prestigioso, una celebrazione solenne di fine anno, un percorso culturale e formativo sugli champagne, un'esperienza gustativa che sposta l'orizzonte di chi la prova.

Da Bollinger ai mastodontici Krug e Dom Pérignon, fino ad approdare al rivoluzionario Selosse - con qualche altro outsider che tiene loro testa rischiando addirittura di superarli - il percorso di degustazione, calibrato con sapienza in abbinamento alla cucina di Al Carroponte, condensa la storia passata, il presente in fermento e gli squarci sul futuro dello champagne che era e resterà per sempre il più incredibile di tutti i vini che l'uomo potesse mai realizzare.

Il teatro in cui va in scena questa meravigliosa sfilata di bollicine è quanto mai appropriato e la tenzone tra questi capolavori dell'arte di fare bollicine promette risultati eclatanti.

Oscar col suo Al Carroponte - siamo in un ex industria e l'omonima macchina ancora campeggia sul bar - ha letteralmente materializzato le aspirazioni personali e la fatica spesa nel formarsi per esserne all'altezza, e oggi - a poco più di un anno di vita - nel suo enobistrò si realizza con grande consapevolezza la sua idea di ristorazione.

La competenza enologica da sommelier, che gli consente di sfoggiare una cantina che desta stupore per la vastità e la ricercatezza delle proposte, va a braccetto con lo scrupolo nel ricercare materie di qualità indubbia, per una cucina che non trasfigura l'ingrediente ma lo mette in luce rivelandone l'essenza.

Facile quindi il dialogo con Alfredo Leoni di Top-Wine nel costruire il percorso della serata e nel gettare le basi per futuri eventi che hanno già il carattere dell'imperdibile.

E proprio da quest'ultimo arriva l'elemento sorpresa, il fattore destabilizzante, quella scossa che smuove le certezze e fa aprire lo sguardo verso altri orizzonti.

sabato 7 novembre 2015

Agri della Fonte, o dell'arte dell'accoglienza


Spunta dal nulla, nel buio di queste prime sere a ora solare, anche se in questa foto la vedi benedetta dal sole.

Tornando da Gallignano, l'idea è arrivare a Torre Pallavicina e mangiare qualcosa lungo l'Oglio, così per puro spirito d'avventura si passa per la strada bassa da Fontanella a Pumenengo, si entra in un nero pesto e fagocitante, che però è anche una benedizione, segno di un'area vasta di terra ancora buona per coltivare e allevare, qui, alla punta estrema della provincia bergamasca.

Poi, una freccia bianca, a destra, ippoturismo, e cartelli fatti a mano che ti fanno salivare con le parole gnocco fritto e salumi.

In lontananza si vede il pezzo di strada di campagna che sta per trasformarsi in percorso più ampio e luminoso, mentre qui, nella direzione della freccia e dello gnocco fritto vagheggiato, la strada diventa stradina sempre più ina, si torce, si incunea, poi si affila facendo il pelo a un campo di granoturco a destra e a una macchia indistinta a sinistra, ché il buio non permette di decifrare.

Così approdi a Cascina Lanzanova, nel silenzio pieno, e non sai se magari quello gnocco fritto era una vestigia di un tempo che fu e ti tocca tornare indietro o se magari addentrandoti...

E allora volti a destra, passi tra due pilastri di mattoni, e finalmente scorgi luminarie dietro vetri, aspetta che scendo a chiedere, apri la porta, fate da mangiare? Siete aperti? e incassi risposte cordiali che ti scaldano come patate appena tolte dalla cenere, tu che già ti vedevi ripartire mogio verso Pumenengo in cerca di un desco per rifocillarti.

Agri della Fonte, questo il nome dell'agriturismo con maneggio che si incastona qui dove il paesaggio è quello fertile sulle rive del fiume, dove campi, orto e bestie sono ancora sentite come presenze irrinunciabili e paritarie agli esseri umani, più che come risorse commerciali.

E poi i cavalli, c'è poco da scherzare, quando ti imbatti in persone che allevano animali non destinati per forza di cose alla macellazione, ma vocati ad avere un ruolo nella sfera relazionale degli esseri umani, a diventarne compagni e amici, allora ecco che vai oltre la passione per la terra, la natura, l'agricoltura genuina e l'allevamento rispettoso, sfoci direttamente nell'amore per lo stare al mondo, da condividere nel dare ospitalità e cibo a chi arriva come i viandanti nei secoli passati.

Questa l'aria che si respira, nonostante il buio, nonostante Agri della Fonte, passate le 20.30, non possa rivelarsi in tutta la sua potenzialità di luogo umano per eccellenza, dove ogni foglia e ogni zolla sanno dirti che cosa sei veramente su questo pianeta, eppure l'eco di questo potenziale si sente anche se l'ora tarda ti fa rimpiangere di non esserci capitato altrettanto per caso a maggio o a giugno, cosa che immediatamente ti riprometti di far capitare, sempre per caso, l'anno successivo.

Se dicessi che Alessandra, o la sorella, o tutto il personale sono cordiali non renderei giustizia.

Qui si tratta di un prendersi cura, della sensazione di essere accolto a casa, non perché il locale scimmiotti le quattro mura di una dimora, anzi, la sala è grande e adatta a banchetti, ma perché ogni gesto, sguardo, attenzione da parte loro è colma di accoglienza, quella di cui sono capaci i sinceri, gli schietti, i calorosi.

E tutto questo, senza fronzoli, ti arriva soprattutto dai piatti.

lunedì 19 ottobre 2015

Quando l'Alchimia si fa Golosa


Qui a Romano i sussulti enogastronomici si contano sulle dita di mezza mano, e anche sporadicamente, ma questo ci sta, tenendo conto del tessuto socioeconomico della zona.

Per questo, è ancora più piacevole applaudire Mario e Nicoletta e la loro Golosa Alchimia - il sito è in costruzione, qui la pagina Facebook - la bottega&osteria che già da un lustro dà lustro - scusate il giochino di parole, ghiotto - al secondo paese della bassa bergamasca, e che neanche un mese fa ha portato qui sulla sponda sinistra del Serio il riconoscimento di Locale del Buon Formaggio assegnatogli al recentissimo Cheese di Bra.

E non si può non partire dal formaggio per raccontare l'impatto che Golosa Alchimia, in quanto bottega, fa ai romanesi o a tutti coloro che anche dagli altri dintorni scelgono di venire a curiosare tra le scoperte e le ricerche che continuamente Mario e Nicoletta espongono in vetrina.

In una terra nata per fare formaggi, la capacità dell'oste-bottegaio di proporre al pubblico eccellenze note e meno note, affiancandole con tutto il ben di Dio che dal resto d'Italia può arrivare, trova terreno più che fertile.

E se dai formaggi passiamo ai salumi, alla passione che trasuda dalla carta nella quale si elencano taglieri che decantano tipicità e tematicità di salami, prosciutti e pancette, la bottega&osteria diventa davvero il crogiolo dell'alchimista che in ogni sua proposta non fa che avvicinarsi a quella sintesi aurea che è la golosità, per chi sceglie di impiegare le sue doti alchemiche nel mondo del buon mangiare e del buon bere.

domenica 4 ottobre 2015

Al Fienile, la pizza geniale di Paolo Ghidini


In un morso di pizza a volte può celarsi un'intera storia, una visione del mondo, un modo di dialogare con la vita e con la responsabilità di trasformarla in un'esperienza densa di significato.

Forse a qualcuno sembrerà esagerato scorgere in un triangolino di pasta cotta in forno tutta 'sta roba, ma chi come me è avvezzo a curiosare dietro i banconi, a mettere la testa nei forni, e soprattutto a scavare nelle menti e nelle motivazioni di chi ha scelto di occuparsi del gusto delle persone sa che è proprio nel dettaglio di un boccone che va a condensarsi l'essenza di un progetto e di chi lo ha ideato.

È il caso di Paolo Ghidini che a Palazzolo sull'Oglio due anni fa si è lanciato da solo il guanto della sfida decidendo di dare una virata decisa al timone della sua vita e aprire la pizzeria Al Fienile, e sono anche certo che sapeva bene il fatto suo e un po' se l'aspettava, tutto il successo finora ottenuto, e a pieno merito.

Perché Paolo non è un improvvisato, e la scelta della pizzeria non è un buttarsi su un prodotto di facile smercio e di minore impegno.

Paolo viene da un'esperienza più che trentennale di imprenditore e affarista nel mondo del tessile, una vita di contatto e confronto con i più importanti mercati esteri che gli hanno permesso di acquisire - è il caso di dirlo - la stoffa per affrontare poi, al giro di boa dei cinquant'anni, la voglia di un nuovo viaggio, stavolta tutto italiano, in ciò che l'Italia sa esprimere meglio: la gastronomia.

Quel triangolo di pizza ripiegato e pronto a finire tra le mie fauci è quanto di più esemplare per raccontare che cosa è in concreto il progetto della pizzeria Al Fienile di Paolo.

martedì 1 settembre 2015

Da Alti Formaggi, l'Onaf per il Provolone Valpadana DOP


Se è vero che spesso il formaggio racconta la storia e la geografia dei luoghi nei quali è prodotto - perché nasce dalla necessità reale che gli allevatori avevano, nei loro spostamenti, di conservare, trasformare o cedere il latte dei loro animali affinché diventasse cacio - ci sono casi un po' più articolati, nei quali i confini della storia e della geografia si espandono.


È il caso del Provolone Valpadana DOP, diretta conseguenza dell'unità d'Italia e degli spostamenti virtuosi delle popolazioni lungo lo stivale e in particolare dal Sud al Nord.

Anzi, nel caso di questo formaggio, non si trattò di un'emigrazione per indigenza bensì di una strategia imprenditoriale con la quale questa provola di grandi dimensioni, adatta sì a stagionare, ma senza asciugarsi, venne trapiantata in quel territorio tra Piacenza, Cremona e Brescia, così adatto all'allevamento bovino, dando la stura alla diffusione nel Nord Italia di questa e di tutte le altre paste filate, fino ad allora poco consuete in Settentrione.


Il trapianto è più che riuscito, e il Provolone Valpadana DOP - la cui denominazione d'origine era riconosciuta sin dal 1993 come DOC - ha un posto di assoluto rilievo tra i suoi fratelli di altre regioni.

martedì 28 luglio 2015

Quattro Portoni: a Cologno, l'eccellenza del latte di bufala


In una terra di splendidi formaggi come la provincia bergamasca, grazie alla sua varietà paesaggistica e climatica, pensare a migliorare non è semplice.

Poi ti imbatti in Bruno e Alfio Gritti, che a Cologno al Serio questo pensiero di miglioramento lo hanno trasformato in realtà, e capisci che quando c'è serietà, impegno, tradizione e capacità di guardare al futuro, il difficile diventa semplice.

Sì, ti puoi modernizzare, a partire dalla costruzione di stalle aperte che migliorano il benessere degli animali, come hanno fatto i due fratelli qui nei pressi del fiume Serio.

Sì, puoi pensare a occuparti personalmente dell'intero ciclo produttivo, coltivare i foraggi, allevare gli animali, raccoglierne il latte e trasformarlo, e persino dare un contributo essenziale alla costruzione di un impianto d'avanguardia per il trattamento degli effluenti di allevamento e la produzione di fertilizzante naturale ed energia rinnovabile, e qui stiamo veramente con i piedi nel futuro buono del pianeta.

Sì, ti puoi avvalere di alte specializzazioni, coniugare le tue conoscenze veterinarie e agronomiche a quelle di casari e tecnologi formatisi secondo i criteri più avanzati.

Con questi tre passi, sicuramente qualsiasi azienda si piazzerebbe al vertice, diventando uno dei massimi esempi di una tradizione importante nell'allevamento di animali da latte e nella trasformazione dello stesso, oltre che di sostenibilità reale e virtuosa per la comunità e l'ambiente.

Ma a questo punto, quale ulteriore passo è possibile compiere, per rendere l'impresa davvero unica e fare quel salto?

martedì 16 giugno 2015

Gourmet in trasferta: a scuola di pizza con Vincenzo Esposito



La pizza, il simbolo, il mito, il marchio di fabbrica della napoletanità, lo street food per antonomasia, il più ricco dei piatti poveri, il più copiato nel mondo, il più imitato e difficile da imitare, se non si conoscono i fondamenti della sua preparazione.

Oggi però le cose non sono più così complicate, della pizza e di come si prepara se ne parla e come, anzi, attorno alla pizza c'è il più intenso e continuo dibattito - non solo nell'area geografica dei dintorni partenopei ma fino a coprire il territorio nazionale - su come dovrebbe essere fatta, sulla paternità da attribuire, sulle variazioni da ammettere o esecrare, sul suo essere doc, dop, igp e chi più sigle ha più ne metta.

Altrettanto vero che la maggior parte di questo dibattito, che a volte arriva a inferocirsi, verte sull'impasto.

Tra strenui difensori dell'impasto tradizionale sancito anche dall'AVPN e arditi sperimentatori di nuove frontiere della pizza, tra fedeli osservanti della farina doppio zero e pionieri della fibra a tutti i costi, tra gli arroccati al lievito di birra ai premurosi di quello madre, tra chi proprio non si sogna di superare la mezza giornata di lievitazione e chi invece dice che se ne parla almeno il giorno dopo, il confronto, la contrapposizione, persino gli scontri non smettono di riempire giorno per giorno la comunicazione attorno alle pizze.

Tutto questo batti e ribatti però rischia di appiattire la complessità, e la bellezza artigianale della pizza, interamente sulla pasta, su quest'alchimia di acqua, sale, farina e lievito, dimenticando che anche la migliore pasta può essere inguaiata da mani incapaci di darle forma, o peggio ancora da occhi disattenti nel gestire forno, pala e cottura.

Con la scusa che poi in casa la pizza napoletana non la puoi mai fare veramente per ragioni tecnologiche, è chiaro che tutto l'interesse mediatico sia finito sull'impasto: a chi legge su riviste o internet, o a chi guarda programmi televisivi con protagonista la pizza, alla fine interessa solo come impastarla.

Invece, sarebbe - anzi, è - molto importante conoscere almeno i fondamenti della stesura e della cottura della pizza, per accrescere la conoscenza e poter meglio valutare l'esperienza degustativa personale e lo spessore professionale del pizzaiolo e del fornaio.

Naturalmente, quando passiamo dall'universo dell'impasto a quello della stesura e della cottura, stiamo abbandonando cose perfettamente classificabili e misurabili come la tipologia di farina e lievito e il peso dei singoli ingredienti o i giri delle lancette dell'orologio in attesa della maturazione, e ci addentriamo nella pura dimensione artigianale, in una pratica che costruisce di volta in volta la sua teoria, in qualcosa che si sente sotto le mani, si soppesa con gli occhi, si valuta a pelle percependo il calore del forno.

Qualsiasi pizzaiolo può scrivervi su un foglio di carta le dosi e i tempi del suo impasto, ma diventa tremendamente difficile fare la stessa cosa per spiegare come si stende e come si cuoce una pizza.

A meno che non ci si rivolga, come ho fatto io, a un signor pizzaiolo, in questo momento in grande spolvero, innamorato pazzo della sua professione e generoso come pochi nel raccontare quello che fa e come lo fa.


Sto parlando di Vincenzo Esposito, della pizzeria Carmnella - del quale avevo già raccontato qui - sempre più lanciato, aperto al confronto, tanto da raccogliere in questi ultimi tempi il frutto di tanto serio lavoro ed esperienza accumulata, a partire dalla solida formazione sotto suo padre - storico pizzaiolo napoletano - e dal confrontarsi ogni giorno con un pubblico di veri napoletani che sulla pizza non perdonano.

Ovviamente Vincenzo è talmente bravo che proprio ciò che prima ho detto essere difficilissimo, ossia scrivere su un foglio come si fa, lui in quattro e quattr'otto lo fa e lo spiega egregiamente.

Così come si rivela uno scrupoloso insegnante, fermando ciò che non si può fermare, ossia il movimento tipico della tradizione napoletana nella stesura della pasta, permettendomi di immortalare fotogramma per fotogramma il procedimento.

Se dunque t'interessa andare oltre le percentuali tra acqua e farina, buttarti alle spalle il dilemma sui lieviti, fregartene per un po' di quante ore far passare prima di preparare la tua buona pizza, ma vuoi scoprire come si stende e come si cuoce la pizza napoletana nel forno a legna, ringrazia Vincenzo Esposito che mo' te lo spiega passo dopo passo.

lunedì 15 giugno 2015

Gourmet in trasferta: la giornata del pasticciere Camillo

La metro m'ha fregato.

Pensavo aprisse prestissimo, permettendo a coloro che lavorano a cavallo tra la notte e l'alba di raggiungere le proprie postazioni, e a me di unirmi a loro.

Invece, quando arrivo a Vico Acitillo trovo il regno delle dolci creazioni in pieno fermento.

Camillo mi accoglie nel laboratorio della sua pasticceria per raccontarmi e farmi vivere la sua giornata da pasticciere, il ritmo che a volte non sa che cosa voglia dire rifiatare, il pensiero lungimirante nel calcolare tante ore prima il risultato che si raggiungerà tante ore dopo, il caldo naturale di questa imminente estate, unito al caldo artificiale dei forni e a quello circostanziale di quattro mura non troppo ampie, con altri due collaboratori e la mia curiosità, per un totale di quattro bocche e otto polmoni a dividersi l'aria.

Saluto veloce, caffè che arriva dal bar in una bottiglietta di vetro, riciclo di succhi di frutta, come solo a Napoli succede, e la dolce arte prende vita.

lunedì 1 giugno 2015

Gourmet in trasferta: ho parlato a una capra


Non manca molto, poco più di tre mesi, prima che questo splendido becco entri in stalla ad accendere il calore tra le sessanta capre che Maria Chiara Onida cura giorno per giorno da quasi trent'anni, sulle prime alture di Ruino, nell'Oltrepò Pavese.

Località e azienda agricola condividono lo stesso nome, il Boscasso, che dal 1988 è passato dall'essere toponimo a sinonimo di eccellenza nella produzione casearia caprina.

Di becchi in realtà ce ne sono sempre tre, e tra le capre ce ne sono sedici primipare, in base a precisi parametri attraverso i quali Maria Chiara mantiene costante la qualità della vita, e quindi del latte, delle sue splendide capre.

martedì 26 maggio 2015

Gourmet in trasferta: Luca Bonizzoni salvi la regina


Fa la preziosa, la regina dell'alveare.

Anche se a chiedere udienza c'è nientemeno che Luca Bonizzoni, la personificazione dell'apicoltura.

Paludati nelle tute di protezione, non solo lo osserviamo manipolare i telai pieni di api, cera e miele, ma qui a Casteggio, nella sua terra, tra i suoi alveari, le uve e i salumi che riposano un sano sonno stagionatore, ci facciamo trasportare dalla sua espressività, tra la lezione e l'affabulazione, tra la correttezza scientifica e la teatralità, tra la dovizia di particolari e il guizzo geniale dell'uomo che sussurrava alle api.

lunedì 25 maggio 2015

Dessertmania: non diciamo cassate


Tra le ricette e la letteratura c'è un'affinità consistente: entrambi i prodotti sono semioticamente dei testi, ossia delle tessiture nelle quali si sovrappongono, si mescolano e si stratificano storie, epoche, testimonianze, passaggi, a formare il racconto di chi quelle ricette e quella letteratura l'hanno realizzata.

Sia i libri che i piatti, dunque, sono delle bellissime strade a ritroso, che permettono di ricostruire i passi compiuti per arrivarci, rinvenendo affinità ed eredità di e con versioni precedenti.

Il problema è che non sempre queste ricostruzioni sono perfette, e spessissimo non hanno il dono della veridicità.

Per questo, pur trovandole affascinanti, non do moltissimo credito alle storie e leggende sul cibo, perché spesso il racconto sulle origini di un piatto risponde a una necessità posteriore più che a una verità originaria.

Poter dire che una data ricetta è il risultato più o meno avventuroso di certe vicende umane è un valore aggiunto, conferisce un sapore non sensoriale ma mentale che fa la differenza, e poco importa se sia andata realmente così o meno.

La cassata al forno è uno dei migliori esempi di questo meccanismo.

Stando all'attualità, si tratta di un involucro di pasta frolla, isolato internamente da pan di Spagna, con un ripieno di ricotta zuccherata e insaporita con cioccolato e altre tracce di reminiscenza araba.

La vulgata la vuole antenata della cassata siciliana, quella in cui la ricotta è blindata nel pan di Spagna, contornato di pasta reale e ricoperto di glassa bianca di zucchero.

La prova indiziaria starebbe nel termine quas'at, che nelle lingue arabe indica una ciotola nella quale si mescolava del formaggio molle con tutti quegli ingredienti che i saraceni avrebbero sbarcato in Sicilia, dalla canna da zucchero agli agrumi e a certe spezie.

Questo impasto di formaggio arricchito veniva chiuso in un involucro di una non precisata pasta di pane e infornato.

Se davvero i saraceni erano usi a preparare questo dolce, di certo non usavano pan di Spagna e cioccolato, che arrivarono almeno con gli spagnoli.

Altro scricchiolìo in questa teoria è l'uso di frutta candita che, secondo alcuni integerrimi tradizionalisti siculi, sarebbe bandito dalla versione al forno, il che contraddice l'origine araba.

Gli amanti delle etimologie fascinose poi inventano letteralmente un fenomeno di assimilazione linguistica tra l'aggettivo glassata  - perché pare che il dolce con la glassa risalga addirittura al XVI secolo - e la parola cassata, e a costoro diciamo di rifare l'esame di glottologia più di una volta.

Il punto vero, che nulla ha a che fare con la ricerca di una cassata dei primordi, è che quella al forno è buona, probabilmente più di quella glassata, e non ce ne vogliamo i palermitani.

E se ti va di rifarla, ti spiego io come.

domenica 3 maggio 2015

Frattaglie e dintorni: la coratella


Frattaglie, quinto quarto, interiora, sebbene dividano inevitabilmente le persone sui comportamenti a tavola, oggi sono sotto i riflettori, vuoi perché il famolo strano è sempre un ottimo modo di distinguersi, vuoi perché se gli chef dell'alta cucina si abbassano a preparare questi scarti allora qualcosa di buono c'è.

Si tratta comunque di parti animali iper nutrienti, e qui i vari indirizzi dietologici si scornano a vicenda, tra chi li bandisce dalla tavola a chi li vorrebbe sette giorni su sette, e in mezzo una sfilza di cerchiobottismo di varia misura.

Se guardiamo agli animali notiamo che quando un predatore tiene tra le grinfie la sua vittima, la prima cosa che va a scofanare sono proprio le budella, gli intestini, gli organi vitali, il fegato.

Non a caso, nel mito di Prometeo, reo prima di aver aiutato gli esseri umani prima ingannando Zeus facendogli scegliere un involto di ossa animali ricoperte di grasso al posto di quello ripieno di ciccia, poi di aver fornito alla stirpe terrena il fuoco, un'aquila buongustaia ogni giorno va a divorargli il fegato che magicamente ricresce, perpetuando sì il dolore del titano, ma moltiplicando il piacere del rapace.

Tra le varie frattaglie delle quali la tradizione italica è zeppa, occupa un posto importante quella della coratella di ovini e caprini che in primavera, per la ricorrenza pasquale, è presente con grande disponibilità.

La tradizione romana la vuole coi carciofi, Artusi suggerisce di colorarla di rosso pomodoro, ma alla base sussiste sempre una buona rosolatura dopo un altrettanto buon lavaggio, per eliminare ogni traccia sanguigna.

Passa per un cibo da stomaci forti, sebbene questa coratella, di animali di piccola taglia, abbia sempre in realtà gusto assai delicato.

Provare per credere, ma gli increduli verso le interiora sono i più duri all'apostasia.

sabato 2 maggio 2015

Noter de Berghem: il Taleggio e la schisöla


Bernabò Visconti doveva senz'altro essere un gourmand ante litteram, perché quando a metà del Trecento si vide assegnare il feudo contenente il paese di Tilleggio, pensò bene di farsi omaggiare dai cittadini della zona con la bellezza di duecento forme di caseus bene stationatum.

Tilleggio diventa poi Taleggio e dà il nome a questo caseus che secondo alcuni risale alle tribù celtiche precristiane - anche se le fonti sono molto incerte - che già lo facevano nella caratteristica forma quadrata.

E infatti, bisogna aspettare la fine dell'800 per identificare col nome di Taleggio quello che s'era sempre chiamato strachì quader, la cui produzione nei secoli si era diffusa in buona parte della pianura Padana, perché gli allevatori - i bergamini più di tutti - salivano e scendevano, nel corso dell'anno, tra la bassa e le Alpi, per la transumanza.

In genere, si arrivava di nuovo in pianura nella seconda metà dell'estate inoltrata, il cammino era stato lungo, a essere stracch erano sia le mucche che i pastori, e così il formaggio prodotto più o meno a fine agosto prese il nome di stracchino.

I nomi sono sempre conseguenza dei fatti, nulla di strano dunque se lo stracchì quader addirittura assunse il quasi-toponimo di Milano - dove ne andavano ghiotti - definizione che compare alla pari con quella di fatto come in Val Taleggio, prima del definitivo battesimo.

Dal 1996 il Taleggio è DOP, ha il suo consorzio, le sue regole, la sua tutela, e soprattutto - grazie al lavoro di casari di grande tradizione - è sempre più un formaggio d'eccellenza.

La produzione del Taleggio, dunque, ha investito tutta la provincia di Bergamo e se in passato la delicata fase di stagionatura necessitava ancora del clima alpino - alle origini, le forme si facevano stagionare nelle grotte - la tecnologia moderna permette anche alle aziende di pianura di realizzare tutto il processo produttivo di questo formaggio che  - a differenza di quelli caratterizzati da un'origine prevalentemente montana - si può ben dire bergamasco a tutti gli effetti.

Ora, io mi trovo questo tesoro, realizzato da Massimo Taddei - qui il racconto della mia visita nella sua azienda - che la luce del sole magnifica, lo sto centellinando fetta dopo fetta, giorno dopo giorno, e mi regala profumi e sensazioni caratteristiche, con questo ricordo di bosco e di tartufo, e il bellissimo gioco tra la percezione pastosa e una vena appena percettibile di acidità.

La maturazione fantastica - questa forma è stagionata per ben 60 giorni - va dall'esterno all'interno, così basta appoggiare la punta del coltello nel sottocrosta per scoprire che lì la cremosità è sorprendentemente avanzata.

Oltre a essere incredibilmente buono al naturale o con i classici abbinamenti da formaggio come confetture o miele, il Taleggio si usa come formaggio da farcitura più o meno a 360 gradi, e l'intensità del suo profumo e del suo sapore non devono trarre in inganno, perché sa sposarsi bene con tantissimi altri ingredienti.

Ma nella cultura popolare bergamasca, il Taleggio si mangia con la polenta, anzi, la polenta diventa il contenitore del formaggio, in un piatto tipico chiamato schisöla, in forma di pallottole farcite che vengono poi abbrustolite o addirittura fritte in olio, dopo un passaggio nelle uova; oppure semplicemente facendo raffreddare la polenta e alternando le sue fette con altrettante di formaggio, prima di un'ultima miracolosa passata in forno, fino a far sciogliere questo antico signore dei formaggi, che i secoli non intaccano, le mode non snaturano, e il buon gusto non può non onorare.

sabato 18 aprile 2015

Al Bianchi: alla ricerca del tempo perduto e ritrovato


Quando si svolta per via Gasparo da Salò a Brescia, costeggiando il Museo Diocesano, la paura di non trovare posto ti morde alle caviglie.

Oggi è sabato e sgusciare dal mercato per infilarsi in queste viuzze ha un senso particolare: al sabato mattina, Al Bianchi, c'è il bertagnì come aperitivo, magari con il pirlo o con quello che ti pare.


E fosse solo quello: a ogni angolo, vassoi di pane e salumi affollano i piccoli spazi della stradina e della prima saletta allungata, lungo il bancone del bar che lavora senza la benché minima sosta, e una moltitudine di avventori, ai limiti della ressa, rende omaggio a questa che ormai è un'istituzione, più che un'osteria: Al Bianchi, dal 1881.

Franco Masserdotti e la sua famiglia ce l'hanno dal 1976 e ora sono alla terza generazione, ma già dal XIX secolo, nel passare di proprietà, nessuno si è più neanche lontanamente sognato di cambiargli il nome, anzi, il cognome, e con esso si è conservato - in modo più unico che raro - il vero spirito dell'osteria.

Seduto a far compagnia ad altri due clienti accanto, con naturalezza allarga la chiacchierata fino a noi e il dialogo si fa facile, divertito, vicendevole, con scambi di esperienze - mi consiglia addirittura un paio di pizzerie in zona, anche se lui, da frequentatore del Sud, sa bene che le tipicità si assaggiano nei luoghi d'origine - e i suoi stessi modi affabili, accoglienti, schietti, si riverberano in tutto il personale, così ogni informazione, ordinazione, scambio con i camerieri contribuisce a creare un sentimento, più che un'atmosfera, fortemente condito di verità.

sabato 11 aprile 2015

All'Antico Mulino i calici parlano francese


Incastonato in un paesaggio stravolto dalle necessità moderne - non ultima la Bre.Be.Mi. - e in posizione strategica come valico verso la Franciacorta, Rovato conserva tracce suggestive della sua antica storia.

Come il molino di mattina, sorto su una roggia che l'epigrafe fa risalire al XIV secolo ed esistente almeno dalla metà del XVI, anche se ricostruito interamente dopo un incendio, nel 1914.

Dopo il restauro recente, diventa location ideale per un ristorante di tutto rispetto, come l'attuale Antico Mulino, locale di punta qui a Rovato, in prima linea nella promozione e valorizzazione della cucina locale, assieme ad altri ristoratori riunitisi per l'associazione ristoratori di Rovato.

martedì 7 aprile 2015

Gourmet in trasferta: quando verace fa rima con Surace


Il sorriso col quale Lello Surace mi ringrazia e mi saluta, quando mi presento e mi congedo, svela una inaspettata tenerezza, a confronto col volto concentrato di un attimo prima, preso a muovere le fila di camerieri e tavoli che vanno a riempirsi.

È una storia fatta di date, quella che sto per raccontare, di anni che si sommano e segnano l'importanza che questo locale, il ristorante pizzeria Mattozzi a piazza Carità, e la famiglia Surace che lo anima, rivestono nel destino della pizza napoletana e che non hanno intenzione di delegare a nessuno.

Si parte dal 1833, quando tale Antonio La Vecchia apre il locale col nome de Le stanze di piazza Carità, che per la posizione e il momento felice diventa un luogo d'attrazione significativo, restando tale anche nei successivi passaggi di proprietà.

Doveroso poi citare Luigi Mattozzi che vent'anni dopo diede il via alla propria dinastia di pizzaioli, disseminando i suoi figli in giro per Napoli con altrettante pizzerie.

Il più ardito dei suoi figli, Gennaro, fece il grande passo di acquistare nel 1924 proprio quelle che erano state le stanze di Piazza Carità, e così vide la luce l'attuale Mattozzi, sebbene le chiavi subissero altri passaggi di mano.

Gennaro, infatti, non avendo eredi, si affrettò a cedere poco prima di morire, nel 1958, ma le vicissitudini del locale continuarono finché circa un anno dopo Alfredo Surace - già direttore di sala presso la famiglia Mattozzi - se ne appropriò assegnando un cognome che resiste da più di mezzo secolo a piazza Carità.

Ma la storia non termina qui, perché il figlio di Alfredo, Lello, nel 1984 sancisce una santa alleanza con i Pace e altri pizzaioli rinomati, costituendo l'Associazione Verace Pizza Napoletana che promuove, valorizza e soprattutto difende la pizza, presentando dopo vent'anni un vero e proprio disciplinare STG.

Gourmet in trasferta: da Attilio, la casa della pizza


Tra dieci anni fate un giro a Napoli in via Pignasecca 17 e ordinate qualche pizza: ci troverete Mario Bachetti, il figlio di Attilio che, da come la racconta suo padre, già adesso a dodici anni ammacca i dischi di pasta con un'abilità fuori dal comune.

Che poi tanto fuori dal comune non è, perché se Attilio ha ricevuto il testimone dal padre Mario, che dal canto suo era stato investito del ruolo di pizzaiolo da Attilio suo padre e nonno del nipote omonimo dei giorni nostri, nulla di strano che l'arte della pizza venga assorbita quasi inconsciamente dal ragazzino, promettendo sviluppi interessanti e vita lunga a un locale che si avvia a diventare storico e che nel cuore dei napoletani lo è già.

Attilio Bachetti è un uomo di una semplicità esemplare, non perde tempo a mettersi in mostra, rifugge qualsiasi canale mediatico dal quale urlare l'eccezionalità della sua pizza - un'eccezionalità comprovata, sia chiaro - e investe il suo tempo, oltre che a mantenere una qualità costante al suo impasto, ad allargare le sue esperienze e la sua cultura gastronomica.

Mi si perdoni la digressione, ma la pizzeria da Attilio assume per me un valore anche sentimentale, perché innumerevoli volte ho sentito mia madre, quando risiedevamo ormai più lontani dal centro, quasi rimpiangere il non poter più scendere sotto casa - lei che abitava a un centinaio di metri dal locale - per mangiare quella che ha sempre ritenuto la più buona delle pizze.

Sono passati settantasette anni da quando nonno Attilio alzò la saracinesca della pizzeria per la prima volta, e il valore della memoria ha dato la sua impronta alla condotta professionale, seria, ma per nulla ingessata del nipote, affiancato dalla sorella e ancora protetto dalla madre, e ancora una volta la carta in più della famiglia si rivela determinante a fare la differenza tra la pizza e le pizzerie napoletane da una parte, e tutto ciò che passa sotto questo nome nel resto del mondo.

Attilio sa dove si trova, ha conservato un carattere di virtuosa modestia nel locale come nella persona, e nella sua silenziosa laboriosità esprime tuttavia la propria gratitudine alla gente, a chi si siede ai suoi tavoli e apprezza le sue pizze, esponendo la miriade di messaggi, versi, disegni che le persone continuano a lasciargli sui tovagliolini, nei quali esternano la loro soddisfazione per come hanno mangiato, e con la stessa meticolosità con cui concia le pizze, così incornicia e appende alle pareti quest'altra non meno importante moneta con la quale si sente ripagato del suo lavoro.

Il resto è conoscenza del mestiere, fedeltà a un modo di lavorare comprovato dalla storia, e rispetto per i clienti, con impasti di lunga lievitazione e maturazione, caratteristiche sulle quali si specula moltissimo, ma che mordendo la pizza di Attilio riconosci con i sensi e non con la mente.

Gricia's anatomy


Ti decidi a fare una ricetta semplice, col minimo degli ingredienti, più che classica atavica, come la gricia, pensando che almeno su questa e sul modo di prepararla non incapperai in alcuna diatriba o divergenza, e invece?

Non mi riferisco certo agli inciampi di Cracco alle prese con aglio,cipolla e panna, parlando dei grandi primi piatti laziali, no.

La questione è più datata, e io che sono pignolo, oltre che filologo, sono rimasto incastrato in un groviglio di varianti della ricetta, tutte ovviamente pretendenti al ruolo di versione originale.

I punti in esame sono diversi, a cominciare dal piatto in sé.

L'attribuzione dei natali a Grisciano - da cui il nome - , frazione di Accumoli, non vuol dire niente, perché l'area di produzione e utilizzo del guanciale, del pecorino e del pepe è sterminata, propagandosi in tutte le regioni toccate dall'Appennino centrale.

La prima vera domanda è in che rapporto sta con la cacio e pepe, l'amatriciana e la carbonara?

Per alcuni sarebbe una variante dell'amatriciana senza pomodoro, il che renderebbe entrambe le ricetto pressoché coeve, con una leggerissima precedenza per quella di Amatrice.

Ma se guardiamo agli ingredienti e a come in certe versioni degli stessi piatti vengono assemblati, l'evoluzione naturale, che va dal meno al più, dal semplice al complesso, dovrebbe vedere come più antica la cacio e pepe, quindi la gricia, e poi l'amatriciana e la carbonara (e stabilire quale di queste due sia precedente all'altra non è semplice, perché le fonti e il buon senso non collimano).

Sugli ingredienti c'è un altro piccolo nodo da districare, tra chi esige il pecorino di Amatrice, più umido, e chi quello romano classico, più duro e salato, ed è strano che tale pretesa compaia più spesso nelle ricette di gricia che in quelle di amatriciana, dove invece è più che tollerato il normale pecorino romano.

Anche il guanciale non è esente da polemiche, non in sé - impensabile sostituirlo con qualsiasi forma di pancetta, e tollerabile che possa essere di una qualsiasi regione centrale - ma nel modo in cui viene trattato sul fuoco: a parte l'idea - che io trovo eccessiva - di aggiungere altro grasso in padella, persino nomi importanti della cucina tipica romana non mancano di sfumarlo col vino bianco una volta reso croccante, cosa che invece nei paesini reatini non esiste proprio.

Sulla pasta e sul pepe non ho riscontrato restrizioni, e questo è comprensibile, perché rispetto alle altre paste laziali la gricia è tutta giocata sul grasso prodotto dal guanciale, che finirà comunque per fasciare qualsiasi formato.

Alla fine la gricia te la fai, un po' come ti gira, un po' scegliendo di pendere ora di qua e ora di là, e quando sei lì lì per metterla nel piatto, col pecorino che amalgama e le listarelle lucide di guanciale, dentro di te la versione originale è l'ultimo dei pensieri.

Gourmet in trasferta: Abraxas, tasty magic cooking


I got a tasty, magic cooking
I got a tasty, magic cooking
I got a tasty magic cooking
got me so hungry I can't stop
that she's a tasty, magic cooking
she's trying to make a greedy out of me

Quando guardi quel mare davanti all'Abraxas, già solcato da Odisseo e da Enea qualche millennio fa, capisci, anzi, senti che il confine tra il visibile e l'invisibile, tra il qui e l'altrove, tra il mondano e l'infinito sbiadisce per svelare la sua vera bellezza.

Una terra viva, tutt'intorno, che nei secoli ha parlato al cielo, aprendo crateri e voragini, poi colmatesi di acque strane, fumose, da affascinare ma anche da far rabbrividire, tanto che ai greci e ai romani venne facile identificare questi luoghi come sedi di forze profonde, dalla fucina di Efesto all'antro della Sibilla, fino al celeberrimo ingresso dell'oltretomba.

Nel bel mezzo di questi laghi diafani, e nella scia del mistero e di ciò che è al di là del consueto, Nando Salemme ha innalzato pietra su pietra l'Abraxas che, sin dal nome, ha la vocazione di spartiacque, proprio come gli anfratti dell'Averno separavano il mondo reale da quello dell'impossibile.

Partito come wine-bar e piccola osteria, l'Abraxas nacque con una precisa scelta di campo, ossia offrire una cucina non di mare in un contesto di ristorazione prevalentemente basato su pesce, molluschi e crostacei.

E come un varco verso altri lidi, Abraxas di pari passo puntò subito su un altro modo di intendere la cantina, dando spazio a vini che difficilmente approdavano in quelle insenature.

Il fortissimo legame con la terra, invece di essere un limite è stato il fattore virtuoso di Nando e dell'Abraxas, che ha presto assunto un'importanza unica, come cucina capace di proporre le peculiarità del territorio flegreo innanzitutto e campano in seconda battuta, e giustamente intessendo sin dagli albori un fitto dialogo con Slow Food e diventando un punto di riferimento per tutta l'area circostante.

L'avevamo già sottolineato su altre testate in occasione del decennale dell'Abraxas: non è esagerato dire che il ristorante di Nando è un vero e proprio modello imprenditoriale, perché ha fatto delle radici solide fondamenta, dell'originalità il fattore più copiato, e della capacità di rinnovarsi una meticolosa pratica di ricerca.

lunedì 6 aprile 2015

Gourmet in trasferta: da Carmnella, il cuore grande di Vincenzo Esposito


Ce l'ha proprio sul cuore, Vincenzo Esposito, il logo della sua pizzeria Carmnella, ed è più luminoso dell'insegna esterna, perché qui, lontano da salotti o dalle suggestioni del centro storico, sarebbe  ancora più difficile affermarsi, se la pizza non fosse all'altezza, se la professionalità non fosse adeguata, e soprattutto se non ci si mettesse la giusta quantità di cuore.

Ora, imparare a fare la pizza è stato per Vincenzo relativamente facile, grazie a suo padre Salvatore, per mezzo secolo a capo dei banchi e dei forni dello storico Trianon.

E la professionalità, quando nasci e cresci in una famiglia che nella ristorazione si muove da più di un secolo, prima o poi la assorbi, ti permea, penetrando in ogni poro della tua pelle e possedendoti in modo assoluto.

Ma il cuore?

Il cuore arriva direttamente da Carmela Sorrentino, la Carmnella che mise alla luce e battezzò il primo locale, e nel nome della quale prima di Vincenzo - di cui Carmela era la bisnonna -  già i suoi genitori si impegnarono a portare avanti la tradizione.

Sulle spalle di Vincenzo Esposito, dunque, grava senz'altro una responsabilità, quella di essere all'altezza di una storia partita al tramonto del XIX secolo, ma proprio grazie a questa storia di anni e di esperienze le spalle si sono fatte solide e la cucina e la pizza - che nell'ultima guida Gambero Rosso si è vista riconoscere i due spicchi - non smettono di stupire e migliorare.

sabato 28 marzo 2015

One Restaurant, the stars look down


Chicco Coria, al comando del One Restaurant, negli ultimi anni oltre ad affermarsi come chef si è distinto per la sua apertura alla cucina vegana, che gli è valsa anche il riconoscimento dei seguaci di questa filosofia alimentare.

E proprio lui è tra i principali promotori di TrentacinquEuro, l'iniziativa nella quale i ristoratori della provincia di Bergamo aprono le loro sale con menù creati per l'occasione alla cifra fissa di 35 €, numero distintivo della città orobica, visto che ne è il prefisso telefonico.

Quest'ultima edizione termina proprio ad aprile e, in vista dell'Expo, è all'insegna della valorizzazione delle tipicità bergamasche (ne ho parlato qui).

Se a tutto questo aggiungiamo che di Chicco Coria si parla in giro come de lo stellato non stellato, definizione a doppio taglio, perché quel non è di una ambiguità pesante, ne abbiamo abbastanza per andare a curiosare lì, a ridosso del viadotto autostradale di Dalmine.

La sala ben curata per fortuna cancella del tutto la cornice quasi extra urbana nonché extra brutta.

domenica 22 marzo 2015

Cascina Reina: la fame del gourmet


Ah, che fam che g’ho, me g’ho ‘na fam ca pe’ la desperasiu’ ‘l cervel m'è ‘sciupà de fo’!

G’ho ‘na fam ca me majarès anca le prède e la pòlver de 'l stradù che g’ho ché diànti.

Ma cuzè che me vèt?

öna casìna?

Sènt che frecàs che la ‘rìa de lé, ‘nduè la lüs.

‘n bel calùr, stà atènt che ché se trùa ergòt de bù da mandà zò ‘n del stòmech?

Spèta, che me toca de lès ché ‘l cartèl…

Cascina Reina, te fazo me regìna sa stasira me fa maià e bif de ‘l bù, regìna mia!

Ta 'l dìs che "se maia chel che g'he, se àrda chel che gh'era e se sta pròpe bè"?

Me maia po' te, del dì bù, e sì che a maià se sta pròpe bè!

‘nduè so’ capitàt?

sabato 21 marzo 2015

Cucinare secondo le stagioni: carbonara di carciofi


Sono ancora incredulo, ed è un'incredulità felice.

Io sui grandi piatti di pasta laziali come la gricia, l'amatriciana e la carbonara - ma anche la cacio e pepe -  sono piuttosto integralista, di quelli che se non c'è il guanciale hai voglia a tentarmi con le migliori pancette del mondo, e senza pecorino non sto a sprecare il mio tempo anche con un Parmigiano Reggiano di ottantanove mesi e mezzo di stagionatura, piuttosto mi mangio la pasta al burro.

Figurarsi se poi posso immaginare delle varianti con elementi di tutt'altra natura, sostituendo addirittura ingredienti animali con vegetali.

Per esempio, non mi sono mai spinto verso le carbonare marine, dove si vedono gamberetti al posto del guanciale, tanto per dirne una.

Posso immaginare che certi ingredienti di terra non stonerebbero nel blend di base della carbonara, magari dei buoni funghi, ma non so se poi ne vale davvero la pena.

Il mio timore è che togliendo il guanciale alla fine il piatto ne perda in sapore, ed è un rischio che non vorrei mai correre, se devo farmi la pasta.

Eppure la cosiddetta carbonara di carciofi mi ha tentato più volte e stamattina - complice un carciofo  quasi alla romana avanzato - ho cominciato a fissarmici su.

Ne faccio una crema, è stato il primo istinto, e mi piaceva l'idea di finirci la cottura della pasta, una pasta lunga e scivolosa, magari delle linguine.

Poi con l'occhio della mente che vaga nel frigorifero versione mnemonica faccio il conto, scorgo il culetto di guanciale che attende la sua degna fine, tengo sotto controllo le due uova a testa in giù, quasi quasi cedo alla tentazione, male che vada il guanciale mi salverà...

E invece, tra un lavoro al computer di qua e una lavatrice da stendere di là, superato il mezzogiorno era ormai troppo tardi per far sudare come si deve il guanciale, cioè almeno tre quarti d'ora sulla fiamma al minimo per estrarne tutto il grasso, perciò mi sono costretto - e il mio inconscio mi ha sapientemente guidato - a provare la vera carbonara di carciofi.

Fatela.

Fate anche quella normale, non smettete, ma fate anche la carbonara di carciofi, adesso, e per tutta la primavera che di questo meraviglioso fiore da mangiare ve ne regalerà quintali.

E fatela così, vegetariana, se così si può dire, abbiate il coraggio di rinunciare al guanciale, o fatevi costringere anche voi dal vostro inconscio che vi farà fare troppo tardi per metterlo su a rosolare, oppure vi farà dimenticare che è finito già da un po', di certo lui, l'inconscio, non mancherà di trovare il modo di mettervi nelle condizioni giuste.

E godetevela, arrendetevi alla sua bontà, sollevando la bandiera bianca del tovagliolo per detergere la pastosità, mentre il cremoso e sapido connubio di carciofo, uovo e pecorino - che sa tanto di primavera, di Lazio, di Pasquanon lascerà neanche un angolo della vostra bocca privo di piacere.

giovedì 12 marzo 2015

Romanée-Conti al M1.lle: tre passi nel mito


L'imperatore romano Costantino, agli albori del IV secolo, molto prima che i Burgundi vi infondessero il proprio nome, non fece neanche in tempo ad arrivare in quella che oggi chiamiamo Côte d'Or che subito gli fu chiesto un provvedimento speciale per salvarne i malridotti vigneti, ed è molto probabile che l'imperatore abbia acconsentito, visto che da allora, per la Borgogna e soprattutto per quel comune che dal popolo di Costantino prese il nome, è stato un crescendo.

Questa notizia rende giustizia al fatto che oggi dire Romanée-Conti è come pronunciare un sinonimo di mito o leggenda ma con tutta la forza che deriva dall'essere in realtà frutto di verità storica.

Se all'asta le bottiglie di questo glorioso Domaine possono superare i 35-40000 €, già nel XVIII secolo il vino messo a punto intorno al 900 dai monaci di St. Vivant, e che ormai aveva assorbito anche il cognome del proprietario, il principe Conti, pare costasse almeno sei volte più degli altri prodotti nei fazzoletti di terra circostanti.

E da allora, sebbene la storia del Domaine sia stata attraversata da cambi di proprietà e da nuovi assetti delle varie parcelle, ai singoli Crus non è stato cambiato neanche un granello, il che rende ancora più abissale il fascino di questo vino.

venerdì 27 febbraio 2015

Lo SlowCooking Tour passa da Bergamo


L'uomo  è ciò che mangia... non è tutta la verità. L'altra parte della verità è: uomo è chi sa cosa mangia.

La formula suggestiva mette subito in chiaro quali siano le intenzioni di SlowCooking, l'associazione di ristoratori che dal 2004, partendo dalla Valtellina, ha contagiato sei provincie lombarde, costituendo un fronte unico per valorizzare ciò che c'è di buono in questa terra.

Prodotti locali, bio-diversità, stagionalità e filiera corta sono i quattro pilastri che guidano lo spirito di SlowCooking e dei suoi associati, con lo scopo di aumentare la consapevolezza e quindi la qualità dei consumatori e degli avventori della ristorazione in Lombardia.

Da Lecco a Sondrio, da Brescia a Bergamo, fino a lambire Monza Brianza, sono tredici i ristoranti pronti a garantire il rispetto delle idee fondanti di SlowCooking, e che dal 1 marzo al 3 novembre 2015 saranno tappe dello SlowCooking Tour.

Gourmet Festival: arriva Norbert Niederkofler

Si potrebbe dire abbiamo fatto sessanta, facciamo sessantuno.

Così, se per il suo sessantesimo anno, Relais & Châteaux si era regalata una sfilza di collaborazioni a quattro mani tra i grandi chefs delle residenze, dimore e ristoranti che la costituiscono, celebrate in tutta la penisola, in un tripudio di sapori ed eleganza, anche nel suo sessantunesimo anno l'iniziativa si ripete con nuovi incredibili appuntamenti.

Martedì 10 marzo tocca alla bergamasca, con i fratelli Cerea ad ospitare direttamente dall'Alta Badia nientemeno che Norbert Niederkofler.

Executive chef della ristorazione della Rosa Alpina, Norbert Niederkofler ha fatto della valorizzazione del territorio un vero e proprio vessillo, e ha portato all'eccellenza gli ingredienti e i prodotti tipici che ha imparato a conoscere sin da ragazzo nell'hotel di famiglia.

domenica 22 febbraio 2015

Gourmet in trasferta: l'informatico che divenne pizzaiolo


Faceva l'informatico e oggi fa il pizzaiolo.

Insegnava a fare la pizza e oggi si propone in prima persona per far assaggiare le sue, di pizze.

Voleva portare conoscenze e tecniche di altre scuole e tradizioni nel solco della pizza tradizionale napoletana e oggi continua a rompere barriere cimentandosi con chef di caratura ed esperimenti di lievitazione impensabili.

Basterebbero queste tre considerazioni per comprendere che con Michele Leo ci troviamo di fronte a un pizzaiolo napoletano sui generis, dalle vicende personali tortuose, che ha in ogni tessuto quella meravigliosa instabilità che porta a cambiarsi e rinnovarsi, al quale è stato affidato da quasi un anno l'arduo compito di gestire una pizzeria nel pieno centro antico di Napoli - il che vuol dire avere a che fare con la tradizione popolare, nella fattura della pizza e nel prezzo - con la consapevolezza di non essere una pizzeria napoletana fra le tante ma l'emanazione dell'adiacente ristorante stellato di Palazzo Petrucci.

A posteriori, la scelta è quanto mai oculata, Michele Leo si è confrontato - nella sua formazione - con il mondo intero della pizza, ben oltre il solo pianeta-Napoli, assorbendo e incamerando tessere di un puzzle teorico-pratico variegato, con il preciso intento di incastrarlo fino a comporre nel risultato finale una pizza napoletana che fosse tale nella sua riconoscibilità e che anzi ne sublimasse le virtù.

La pizzeria di Palazzo Petrucci può sembrare in apparenza solo il bel locale con annesse piazza San Domenico Maggiore e terrazza che affaccia sulla stessa, per un'esperienza di degustazione suggestiva, che coniuga le bellezze della città con le sue bontà, in un'atmosfera più raffinata e maggior cura dei dettagli.

Ma dietro quel bancone, sul quale Michele Leo stende e concia le sue pizze, si cela un piccolo laboratorio di esperimenti che proiettano questo pizzaiolo in avanti di almeno dieci o vent'anni, raggiungendo risultati che sarebbe difficile divulgare oggi senza essere presi per pazzi o eretici.

Non facile la sua convivenza con la tradizione, col disciplinare della pizza STG e quindi con le associazioni di categoria, con le altre pizzerie della zona che d'altro canto si propongono innanzitutto per la loro storicità, conservando anche nei prezzi un approccio con la clientela affatto differente nella concezione.

Ma non è per l'euro, l'euro e mezzo in più a pizza, sul quale si può ragionare e attorno al quale ci possono essere ridde di opinioni.

La pizzeria guidata da Michele Leo mette al centro della sua proposta la ricerca, la quantità di pensiero a monte della pizza, la concezione sempre ben meditata di ogni singola voce in carta, oltre a una procedura realizzativa che si arricchisce di passaggi tecnici propri di altre scuole e filoni.

Folgorante e fruttuoso per Michele Leo, dopo aver lasciato computer e linguaggi di programmazione, l'incontro con Gabriele Bonci, cui va il merito di aver da una parte accolto e incoraggiato il suo ardire e ardore, e dall'altro di non aver messo paletti affinché Michele Leo trovasse il suo modo di conciliare quanto appreso con il maestro-amico-collega romano con l'intoccabile pizza ai piedi del Vesuvio.

Gourmet in trasferta: lettera alla figlia di un pizzaiolo


'e pizze ca veng' io nun songo 'e stesse ca vuje truvate dint' 'e pizzerie
songo cchiù prufumate d' 'a 'nanassa e adinto ce sta tutto 'o bbene 'e Ddio

Cara Maria,
una settimana fa sono arrivato a via del Grande Archivio e ho varcato quella porta sotto la scritta La figlia del Presidente col pensiero di entrare in una pizzeria - la tua - per poi raccontarne le caratteristiche, il gusto della pizza, la bontà, accennare agli ingredienti, descrivere il locale e chi lo gestisce e così via.

Kanton, da Capriate con sapore


C'erano una volta Lu, Chuan, Yue, Min, Su, Zhe, Xiang e Hui, poi arrivò Weiku Zhu e nacque il Kanton.

Non è una barzelletta esotica, ma un condensato tremendamente serio di ciò che accade nel rivoluzionario Kanton Restaurant a Capriate San Gervasio, dove la famiglia Zhu dalla seconda metà degli anni Novanta ha costruito la sua grande muraglia del gusto, e che da alcuni mesi si è rinnovato in una formula attuale e affascinante.

Fuori da qualsiasi consuetudine e preconcetto sui ristoranti cinesi, qui ci troviamo di fronte a una famiglia che conosce i millenari stili di cucina del proprio sterminato paese e sa come farli reagire con elementi di modernità capaci di lanciare un ponte tra Oriente e Occidente.

Materie prime eccellenti, tecnica solida, cucina vera fatta all'istante - molti piatti richiedono tempo se non addirittura prenotazione - in una perla di locale che l'attenta progettazione dell'architetto Davide Vizzini  ha ideato affinché l'esperienza di sedersi e mangiare al Kanton riuscisse a trasmettere l'essenza del paese del dragone filtrata attraverso una sobria ed efficace essenzialità.

Aggiungiamo che il Kanton è uno dei pochi ristoranti di cucina e tradizione cinese a proporre un'articolatissima carta del tè, strutturata in base alle caratteristiche organolettiche della bevanda, per costruire gli abbinamenti migliori, e per conoscere da vicino quello che è considerato il simbolo del mondo perché contiene in sé gli elementi fondanti acqua, legno, fuoco, terra e metallo.

Mentre il tè bianco Pai Mu Tan si perfeziona nell'infusione, seguiamo le spire del dragone che dalla Cina è arrivato a Capriate con sapore.

sabato 21 febbraio 2015

Il ritorno di Ingruppo nell'anno dell'Expo

Squadra che vince non si cambia, semmai si migliora.

All'insegna della saggezza proverbiale, Ingruppo ritorna proiettando la sua luce sull'imminente Expo e con un fuoriclasse straniero per stravincere la partita delle iniziative enogastronomiche bergamasche e - a questo punto - lombarde.

Dal 10 marzo al 31 ottobre - quindi fino all'ultimo giorno dell'esposizione universale di Milano - i 15 ristoranti più prestigiosi della provincia di Bergamo e l'outsider di prim'ordine Devero di Cavenago di Brianza apriranno le loro porte con menù eccezionali, corredati da calici importanti, a un prezzo impossibile altrimenti.

110 € a coppia per assaggiare le creazioni dei migliori chef lombardi e farsi una panoramica completa del livello della ristorazione che tira nel nostro paese.

venerdì 20 febbraio 2015

Gourmet in trasferta: la Masardona, nel nome del padre e del figlio


El gurú de la pizza frita
Senza esitazione, gli organizzatori di San Sebastian Gastronomika 2014 a ottobre scorso hanno invitato La Masardona di Enzo Piccirillo a rappresentare l'Italia, e suo figlio Cristiano - prossimo dottore in lingue - ha personalmente tenuto la conferenza per illustrare la loro miracolosa pizza fritta al pubblico del convegno che fa da punto di riferimento per la gastronomia mondiale, alla sua sedicesima edizione.

Non che mancassero precedenti segnalazioni prestigiose, ma quando una delle espressioni più popolari del mangiare - e del mangiare napoletano fatto in un quartiere difficile - assurge a esempio di eccellenza rappresentativa c'è solo da inchinarsi.

Da trentacinque anni, il padre si è fatto pieno carico di questo spaccio di bontà che è l'Antica Friggitoria Masardona, a due passi dai binari di Napoli Centrale.

giovedì 19 febbraio 2015

I piatti di Bassano, tra Barbera e Pinot Nero


La miniatura della sala non risparmia alcun dettaglio, e forse certi particolari finisci per notarli meglio nella scatola dietro il vetro che nello spazio reale intorno a te.

Qui a Madignano, Bassano Vailati conserva come in una miniatura preziosa la sua trattoria come un baluardo di tradizione enogastronomica coniugato a una competenza e a una franchezza di modernissima efficacia.

Gli fa eco Gian Luca Colombo che con la sua Segni di Langa sposa la caparbietà e il coraggio giovanile con una sapienza enologica che si rifà direttamente alla verità del vino, quella che si ottiene quando un enologo come lui si limita a non rovinare ciò che la natura ha creato.

L'incontro, organizzato da Alfredo Leoni, ha dato vita all'evento Tra Barbera e Pinot Nero, più che una cena con degustazione una vera e propria chiacchierata, profonda e aperta, con Gian Luca Colombo a raccontare l'esperienza del fare vino con l'emozione di chi dà alla luce una nuova creatura (e difatti la sua barbera prende il nome dalla figlia, coetanea delle sue creazioni), e con Bassano Vailati a sferzare gli eccessi di sofisticazione spacciati per modernità ed eleganza, dimostrando che i buoni prodotti e le buone ricette non conoscono tramonto e hanno la stessa longevità di un grande vino.

mercoledì 18 febbraio 2015

Gourmet in trasferta: i Lombardi alla quinta generazione


Una pizza in famiglia
Il valore della pizza a Napoli si può comprendere solo rendendosi conto che la pizza non è solo un piatto, ma è un testimone di una trasmissione di valori che quasi sempre avviene in famiglia.

Alle spalle di suo padre, saldamente al comando dietro la cassa, Enrico Maria Lombardi accompagna il mio sguardo sulle fotografie che raccontano quattro generazioni di pizzaioli e che portano alla quinta, la sua e quella di suo cugino Carlo Alberto.

In alto a sinistra, il trisavolo Enrico - anzi, Errico, come riportano i documenti ufficiali - che nell'ultimo decennio del XIX secolo già friggeva pizze, e che si rese protagonista di una fruttuosa emigrazione negli Stati Uniti: forse se oggi a New York esiste Lombardi's Pizza è grazie al seme che vi gettò.

Il testimone passa a Luigi, bisnonno di Enrico Maria, esempio di dedizione alla fatica per le generazioni a venire della famiglia, e che godette della stima del più grande pensatore del primo XX secolo, Benedetto Croce in persona, nel periodo in cui era possibile ai due incrociarsi nei pressi di Santa Chiara.

E arriviamo così a ridosso degli anni Cinquanta, con l'apertura di quella che ancora oggi è l'unica sede della pizzeria Lombardi, a via Foria, nella quale hanno ammaccato e infornato pizze bisnonno, nonno e papà di Enrico Maria, in una saga caratterizzata da grande spirito di sacrifico, voglia di conservare una dignità ottenuta con il lavoro e con i propri sforzi, e che gli esponenti di questa quinta generazione vogliono conservare e non sprecare.

Perché quella ricevuta a partire dall'avo Errico non è solo un'eredità, ma è già una lezione sul futuro.

mercoledì 11 febbraio 2015

A tutto Champagne tra le tapas del b3


Si possono avere opinioni differenti sulle temperature di servizio di quasi tutti i vini, visto che i gradi in più o in meno influiscono direttamente sulle percezioni olfattive e gustative, producendo risultati che ognuno poi giudica a modo suo.

Se però chiediamo a quale temperatura è meglio bere lo champagne, la risposta è netta e generalizzata: freddo, molto freddo, freddissimo.

6-8° centigradi, questo il parametro fissato da Alfredo Leoni per le bottiglie protagoniste della serata A tutto Champagne, e una volta fuori dal frigorifero trovano la corretta e fredda accoglienza del ghiaccio per tenerle al punto giusto.

Siamo al b3 di Daniele Cumini, nello spazio che ogni venerdì si apre all'Aperitivo Champagne dalle 18 a seguire, e che ieri sera invece ha ospitato questa degustazione per scoprire champagne dalla performance inimmaginabile.

Quattro Champagne, ognuno con la sua spiccata personalità, preziosi senza eccedere nel lusso, incredibilmente preziosi per ciò che regalano al palato, in un rapporto tra qualità e prezzo che fa sgranare gli occhi, perché lo champagne non è solo bottiglie inarrivabili e a molti zeri.

Se a questo aggiungiamo lo stato di grazia, la perizia e soprattutto il divertimento che Daniele Cumini ha saputo infondere alle tapas proposte, ne viene fuori una serata di quelle che sorprendono per come sanno andare oltre le aspettative, e ti fanno dire che prodotti seri, buona mano, esperienza e convivialità sono i veri ingredienti per un evento di successo.

martedì 10 febbraio 2015

Gourmet in trasferta: sogno di una pizza in mezzo a Milano


La pizza mi sta diventando una specie di ossessione.

Non mi faccio capace - per dirla col mio idioma - di come sia così difficile per me trovare una pizzeria dove soddisfare la mia naturale, originaria propensione per questo piatto.

Tentativi riusciti ce ne sono stati, pure qua al Nord, soprattutto a Milano, dove stamattina cammino in un silenzio da eco, qua nei pressi di San Babila, dietro Largo Corsia dei Servi.

Ma questi tentativi sono ancora scandalosamente troppo pochi: mancanza di coraggio, di spirito imprenditoriale, prevalenza del chi m' 'o fa fa'?

Perché, mi chiedo, uno qualsiasi dei grandi pizzaioli ai piedi del Vesuvio, non se ne viene qua, sotto la Madonnina, e apre una bella pizzeria di quelle serie che davvero fanno sentire i napoletani di nuovo a casa?

Perché, mi rispondo, ci vorrebbe uno proprio grande, uno che non solo sia in grado di farla buona, 'sta pizza, ma che abbia la credibilità giusta per chi deve investire, e la notorietà appropriata per attirare non solo i partenopei emigrati, ma soprattutto i cittadini, i milanesi, se mai esistono ancora.

Pensa che bello - sì, ormai parlo con me stesso da solo, fendendo il vento tra i portici del corso Vittorio Emanuele II - se uno come Gino Sorbillo si decidesse a fare un simile passo.

Uh anema - intervengo nel mio soliloquio, neanche tanto mentale, ma sussurrato a fior di labbra, sicuro che la poca gente in giro non mi veda parlare tra me e me - chillo sì ca scassasse!

venerdì 6 febbraio 2015

Da Bergamo a Bordeaux, passando per il M1.lle


Davanti a un simile plotone, a rappresentare uno dei pezzi più importanti della storia del vino mondiale, si prova la stessa, silenziosa commozione che sa suscitare in noi la bellezza.

Perché se è vero che il vino è antico quanto l'uomo, come testimonia la civiltà greco-romana, è altrettanto vero che il vino è diventato veramente buono a Bordeaux e dintorni, dove sin dal Medioevo sono state gettate le fondamenta della vinificazione moderna.

Per questo, ma anche per l'intrinseca bontà di questi vini e dei piatti che li hanno affiancati, l'evento Da Bergamo a Bordeaux, svoltosi l'altra sera nel capoluogo orobico, ha il carattere di uno spartiacque nell'esperienza di qualsiasi gourmet.

Per arrivare lì, al M1.lle Storie & Saporile bottiglie sono partite dalla cantina di Top-Wine, grazie allo spirito e all'iniziativa di Alfredo Leoni e Paolo Stefanetti.

Sulla scia del successo de I favolosi anni Ottanta, il team di organizzatori ha deciso di lanciare un calendario di serate di pari livello, che assicura all'enogastronomia bergamasca in questo 2015 un'importanza di primo piano.

Bordeaux, oltre a essere il la della storia della vinificazione moderna e contemporanea, è tappa obbligata per comprendere il come e il perché di una tipologia di uve e di maniere di assemblarle, esportata in tantissimi altri paesi, ovviamente con risultati che, pur apprezzabili, mai riescono a eguagliare quelli originali e originari ottenuti attorno all'estuario della Gironda.

Proprio qui a Bergamo, ironia della sorte, esiste uno dei tentativi italiani più famosi di trapianto del metodo bordolese, con i vari Valcalepio, ma se gettiamo un'occhiata rapida ai vigneti del nostro stivale troveremo una cospicua presenza di uve Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Merlot, e che raggiungono il punto più alto proprio nei Super Tuscan.

Qui però, o meglio a Bordeaux, si formò già più di cinquecento anni fa una concezione della produzione vitivinicola assolutamente inedita, che investe tutto il processo realizzativo, dalla coltivazione alla lavorazione della materia prima in strutture organizzate, i celeberrimi Château, e soprattutto all'esportazione, che nella città francese si sviluppò anche grazie alle forti richieste provenienti dal mercato inglese già secoli e secoli fa, e che non si interruppe mai, anche quando Francia e Inghilterra se le suonarono di santa ragione.

Questo non vuol dire automaticamente che qualsiasi vino di Bordeaux, al di qua o al di là della Gironda, sia sempre il top, anzi, è forse più vero dire che la produzione è vastissima, con pochi Château a dettare legge e parametri della qualità e del valore, e moltissime altre aziende, di ogni dimensione, a produrre vini di qualità disomogenea, spesso sbilanciati, tremendamente somiglianti tra loro e col pedale tutto schiacciato su tannini e legnosità.

Se però dalla gran massa di produttori estraiamo nomi del calibro di Château Margaux, Leoville de Las Cases, Haut-Brion o Lafleur Pomerol stiamo pescando bottiglie non solo al vertice della produzione bordolese, ma in cima all'intero mondo del vino.

Le accomuna innanzitutto l'inarrivabile qualità dei territori, capaci di regalare uve dalle incredibili performance, che una tecnica attenta soprattutto alla materia tramuta in vini ad altissimo potenziale di invecchiamento, soprattutto nelle annate eccezionali, e persino le bottiglie degli anni Ottanta aperte ieri sera hanno dimostrato che se la serata si fosse svolta nel 2025 invece che adesso non avrebbero palesato alcun segno negativo.

Il grande impegno di Alfredo Leoni e Paolo Stefanetti, nell'immaginare e poi realizzare questo entusiasmante viaggio Da Bergamo a Bordeaux, si configura dunque come un atto di ossequio verso quell'angolo di Francia che ha insegnato agli altri paesi a sognare, prima ancora che a realizzare, un grande vino.