venerdì 6 febbraio 2015
Da Bergamo a Bordeaux, passando per il M1.lle
Davanti a un simile plotone, a rappresentare uno dei pezzi più importanti della storia del vino mondiale, si prova la stessa, silenziosa commozione che sa suscitare in noi la bellezza.
Perché se è vero che il vino è antico quanto l'uomo, come testimonia la civiltà greco-romana, è altrettanto vero che il vino è diventato veramente buono a Bordeaux e dintorni, dove sin dal Medioevo sono state gettate le fondamenta della vinificazione moderna.
Per questo, ma anche per l'intrinseca bontà di questi vini e dei piatti che li hanno affiancati, l'evento Da Bergamo a Bordeaux, svoltosi l'altra sera nel capoluogo orobico, ha il carattere di uno spartiacque nell'esperienza di qualsiasi gourmet.
Per arrivare lì, al M1.lle Storie & Sapori, le bottiglie sono partite dalla cantina di Top-Wine, grazie allo spirito e all'iniziativa di Alfredo Leoni e Paolo Stefanetti.
Sulla scia del successo de I favolosi anni Ottanta, il team di organizzatori ha deciso di lanciare un calendario di serate di pari livello, che assicura all'enogastronomia bergamasca in questo 2015 un'importanza di primo piano.
Bordeaux, oltre a essere il la della storia della vinificazione moderna e contemporanea, è tappa obbligata per comprendere il come e il perché di una tipologia di uve e di maniere di assemblarle, esportata in tantissimi altri paesi, ovviamente con risultati che, pur apprezzabili, mai riescono a eguagliare quelli originali e originari ottenuti attorno all'estuario della Gironda.
Proprio qui a Bergamo, ironia della sorte, esiste uno dei tentativi italiani più famosi di trapianto del metodo bordolese, con i vari Valcalepio, ma se gettiamo un'occhiata rapida ai vigneti del nostro stivale troveremo una cospicua presenza di uve Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Merlot, e che raggiungono il punto più alto proprio nei Super Tuscan.
Qui però, o meglio lì a Bordeaux, si formò già più di cinquecento anni fa una concezione della produzione vitivinicola assolutamente inedita, che investe tutto il processo realizzativo, dalla coltivazione alla lavorazione della materia prima in strutture organizzate, i celeberrimi Château, e soprattutto all'esportazione, che nella città francese si sviluppò anche grazie alle forti richieste provenienti dal mercato inglese già secoli e secoli fa, e che non si interruppe mai, anche quando Francia e Inghilterra se le suonarono di santa ragione.
Questo non vuol dire automaticamente che qualsiasi vino di Bordeaux, al di qua o al di là della Gironda, sia sempre il top, anzi, è forse più vero dire che la produzione è vastissima, con pochi Château a dettare legge e parametri della qualità e del valore, e moltissime altre aziende, di ogni dimensione, a produrre vini di qualità disomogenea, spesso sbilanciati, tremendamente somiglianti tra loro e col pedale tutto schiacciato su tannini e legnosità.
Se però dalla gran massa di produttori estraiamo nomi del calibro di Château Margaux, Leoville de Las Cases, Haut-Brion o Lafleur Pomerol stiamo pescando bottiglie non solo al vertice della produzione bordolese, ma in cima all'intero mondo del vino.
Le accomuna innanzitutto l'inarrivabile qualità dei territori, capaci di regalare uve dalle incredibili performance, che una tecnica attenta soprattutto alla materia tramuta in vini ad altissimo potenziale di invecchiamento, soprattutto nelle annate eccezionali, e persino le bottiglie degli anni Ottanta aperte ieri sera hanno dimostrato che se la serata si fosse svolta nel 2025 invece che adesso non avrebbero palesato alcun segno negativo.
Il grande impegno di Alfredo Leoni e Paolo Stefanetti, nell'immaginare e poi realizzare questo entusiasmante viaggio Da Bergamo a Bordeaux, si configura dunque come un atto di ossequio verso quell'angolo di Francia che ha insegnato agli altri paesi a sognare, prima ancora che a realizzare, un grande vino.
Attesa ritmata dal Louis Roederer Brut Premier, per un primo brindisi nell'intrigante cantinetta del M1.lle, avvolti da un panorama mondiale di bottiglie che non sfigurano neanche davanti ai quattro pilastri di Bordeaux che di lì a poco arriveranno.
Tavolo da otto commensali, atmosfera conviviale e bel terreno di dialogo tra i presenti, con Massimiliano Zani nella doppia veste di ospite a tavola e soprattutto fornitore delle carni protagoniste dei secondi.
A proposito di carni, il Roederer si appoggia comodamente sul salame bergamasco, perché l'eleganza vera non è mai spocchia, e uno champagne sa esprimersi anche e soprattutto se abbinato a salumi che non la mandano a dire.
E si resta nella stessa maison con l'apripista dell'evento, un Cristal 2006 che è innanzitutto una dichiarazione d'intenti: andiamo sul sicuro.
Fascinoso, oro tenue, bouquet tra l'agrumato e il tostato.
Albicocca e pompelmo rotondi e cospicui, cremosità, e importante mineralità.
Notevole Pinot Noir, perfezionato dallo Chardonnay, annata benedetta dalla storia.
Anche dalla cucina, stessa presa di posizione garantista: il pata negra approfondisce ed eleva il discorso di cui sopra, circa l'accoppiata champagne-salumi.
Visto il salto d'eleganza, ancor più appropriato risulta il boccone di patata e caviale, prima del perfetto crostino con foie gras, e l'appetizer si può archiviare con piacevolezza.
Il viaggio comincia da qui: Château Margaux 1981, che non è per niente un entrare in punta di piedi.
Siamo all'interno dell'Haut-Médoc, la Garonna si trasforma in Gironda, e Margaux si ritaglia un posto di rilievo tra altri grandi circostanti.
Rubino che brilla, con un cuore di frutto fresco, Cabernet Sauvignon con piccoli apporti di Merlot, Cabernet Franc e Petit Verdot.
Pregevole equilibrio tra fine tannicità e dolcezza, una bellissima evoluzione dalla quale emerge il marchio di riconoscimento del sentore di peperone - un difetto, per alcuni, ma che io non riesco a considerare se non come virtù - in un finale lungo in eleganza.
La battuta di fassona, con l'insalatina croccante e il caviale, prima di intessere un dialogo con il vino, articola un gioco di contrasti coraggioso forse ai limiti dell'ardito.
La battitura della carne è parecchio marcata, siamo ben oltre la tartare e sconfiniamo nel regno della pastosità, il caviale ha il pregio di essere ineccepibile in sé e il quasi-difetto di rimanere del tutto a sé, mentre l'equilibrio tra l'aromaticità della carne e le note pungenti della rucola ha del bello, quando i due elementi in modo casuale si abbracciano in bocca.
Qualche parcella più a nord di Margaux c'è Saint-Julien, con l'abbagliante Grand Vin De Léoville du Marquis de Las Cases, in un'annata strepitosa e di eccezionale longevità: 1986.
La prima considerazione è proprio sul potenziale d'invecchiamento, perché se i quasi trent'anni passati diventassero quasi sessanta probabilmente questo capolavoro non farebbe altro che mostrarsi ancora più smagliante.
Lo testimonia una certa ritrosia ad aprirsi, e solo col passare delle mezz'ore - per chi ha saputo conservarne una stilla - si è deciso a raccontarsi con più dovizia.
Al naso e al palato offre sentori di tabacco, frutta secca e intensa speziatura, di grande durata, mentre se ne scopre la tannicità risoluta e affilata.
Abbinare un vino così è difficile, non per le caratteristiche organolettiche - i Bordeaux in generale hanno un ampio repertorio di piatti con i quali andare a braccetto, perché una certa cucina si è sviluppata di pari passo con la loro storia - quanto per le doti specifiche che lo fanno degno di un a solo, di silenzio, di ossequio, di ore per gustarne un bicchiere e non smettere di meravigliarsi per dove può arrivare a volte l'ingegno umano quando comprende la forza della natura.
Paolo Stefanetti ce l'ha davvero messa tutta nel preparare un magistrale risotto alla milanese con ragù di ossobuco, e qui è doverosa una digressione.
Risotto e ossobuco, stiamo parlando quindi di una portata che oggi viene letteralmente spacciata da tutti i ristorantucoli del capoluogo lombardo in sbrindellati menù turistici con risultati tra l'esilarante e l'agghiacciante.
Questo risotto e ossobuco, fatto di ingredienti da urlo, eseguito con rispetto prima ancora che con tecnica, persino filologico e didascalico, per come i sapori restano separati ma amalgamabili a piacimento, e con le stupende ondate d'agrumi che citano la gremolada e danno un brio a un piatto che invece siamo abituati a pensare di un certo peso.
Dirò di più, ho scritto siamo abituati a pensare: ecco, tu sai che ti serviranno il risotto alla milanese con ossobuco, quindi lo pensi, ma quello che arriva qui prende i tuoi pensieri, li impacchetta e li mette via chissà dove, per disegnarti una maniera vergine di ripensare al risotto con ossobuco.
Fare piatti con materie prime eccezionali - come accadrà per le due portate successive - se non è più facile è almeno vantaggioso, ma fare un piatto così, che per giunta si porta sulle spalle anche la gravità della tradizione, e farlo così bene ci dà la misura del cucinare bene, cioè stupire senza ricorrere ad alcun trucco da prestigiatore, ma solo alla maestria.
A proposito di materie prime eccezionali, la prima chicca portata da Massimiliano Zani da Canneto sull'Oglio è questa tagliata di fassona piemontese, appena guarnita - se mai ce ne fosse bisogno - di qualche verdurina tornita - che fa molto école de cuisine - con salse.
La carne non è di quelle scioglievoli, e il macellaio ci tiene a precisare che questo, lungi dall'essere un difetto, è anzi un parametro per capire la qualità certificata senza leggere il certificato stesso, perché solo una grande carne è capace di dare tenerezza al taglio e al morso e tuttavia conservare una certa coesione delle fibre.
L'intesa perfetta tra piatto e vino si raggiunge con lo Château Haut-Brion 2002 che si mostra già più pronto a fare il suo dovere sin dal primo assaggio.
Qui siamo un bel po' più a sud, sulla riva sinistra della Garonna, territorio di Graves, nell'AOC Pessac-Léognan, ma la gloria dell'Haut-Brion ha più di un secolo, da quando risultò l'unico vino esterno al Médoc accettato dalla prima classificazione del 1855.
Colore grandiosamente vellutato, bella densità, di grande concentrazione e maturità al naso, con una meravigliosa succulenza del frutto al palato, e l’agilità finale.
Poi si fa uno di quei salti vertiginosi, e dalla sponda mancina della Garonna si piomba su quella a dritta della Dordogna, in Pomerol, dove le condizioni climatiche, quindi le caratteristiche delle uve, e di conseguenza gli equilibri del loro assemblaggio cambiano, e non si tratta di un cambiamento in peggio.
Lo Château Lafleur Pomerol 2004 marca davvero una distanza con gli altri tre, che da ragioni geografiche si sposta verso quelle chimiche che a loro volta si fanno gustative.
Intanto, si tratta di uno château a poca distanza da un certo Petrus, ma al quale è capitato diverse volte che togliesse il primato nelle valutazioni dei più grandi esperti di vino.
Inoltre, se nella regione di Pomerol di solito il Merlot la fa da padrone e il Cabernet Franc gli fa da scudiero - e già questo scava un abisso rispetto al blend di Bordeaux e paraggi, in cui il Cabernet Sauvignon detta legge - quelli di Château Lafleur invertono il rapporto di forza, dando molto più peso al Cabernet Franc, finanche arrivando al cinquanta e cinquanta col Merlot se non oltre, in certe annate.
Per questo, pur essendo di finezza elevatissima come gli altri che lo hanno preceduto, il Lafleur spiazza aggiungendo quell'animalità e persino un pizzico di rudezza in più che solo il Cabernet Franc sa instillare, e questo - nel gioco del trova il migliore - me lo ha fatto preferire.
Con il brasato di chianina di Zani si genera un'altra accoppiata che quasi toglie il podio a quella precedente, tanto viaggiano bene insieme questa carne spettacolare e il Pomerol.
Mano sicura in questo piatto, ineccepibile quanto appropriato, a chiudere un menù che ha suonato in netto crescendo.
Così ci si concede il canonico dessert nell'accezione francofona, con una terna di formaggi dal sapore sempre più ardito, partendo dallo Strachitunt, facendo una sosta nel Gorgonzola e approdando al Rocquefort, cioè intensità, piccantezza e aromaticità, tutte pensate per il calice in arrivo.
Château dYquem 1997 è un po' chiudere come si è iniziato, cioè andando sul sicuro di un Sauternes che con i saporiti formaggi dà vita a un esaltarsi reciproco e virtuoso.
Ci rinfreschiamo con un'acceso mix di frutta e gelato, ma le ragioni addotte, come pulire il palato, sciacquare la bocca e altre possibili razionalizzazioni faticano a nascondere il vero intento: serve un pretesto per l'ultima bottiglia.
Dal Grand Cru di Ambonnay, la Cuvée Laetitia di Billiot è un'alchimia di mosti selezionati dagli anni Ottanta a oggi, e rappresenta la vetta per un'azienda che sa declinare il Pinot Noir in tutte le versioni immaginabili e in modo del tutto unico, per qualità e costi.
Ma l'imprudenza nel definirla l'ultima bottiglia è di quelle cieche, Billiot incuriosisce, e non si smette di brindare per tutta la notte alla magia dell'occasione, all'onore di aver testimoniato la grandezza dei Bordeaux, a questo trascinante viaggio che da Bergamo ci ha condotti là dove l'uomo ha capito il grande avvenire del vino nella sua esistenza, senza mai più dimenticarsene.
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