giovedì 26 giugno 2014

Cucinare secondo le stagioni: il mito degli spaghetti alla Nerano


La cucina, come tutte le autentiche espressioni dell'umanità, è intessuta di storie che ammantano i fatti, e di altre storie che cercano di districare le prime.

Caso esemplare, gli spaghetti con le zucchine di Maria Grazia a Marina del Cantone, in cui la vicenda sui natali del piatto trova il suo sequel nei tentativi di risolvere il mistero della sua tuttora sconosciuta ricetta.

Sul sito del ristorante, con schiettezza si parla di un piatto nato quasi per gioco nel 1952 e che ha radicalmente cambiato in termini di notorietà il destino di Maria Grazia e del suo ristorante.

Si sa che ci sono le zucchine fritte, si sa che c'è del formaggio, si capisce che il tutto viene amalgamato con una sapiente mantecatura, ma in termini di dosi, di tempi, di procedimento, di rapporto tra quantità e qualità di formaggio, acqua, zucchine e condimento il buio è fitto e la caccia al tesoro, cominciata già da decenni, è ancora irrisolta.

Prima di friggerle, è giusto far asciugare le zucchine, al sole o magari essiccandole leggermente?

Vanno tagliate sottili o a cubetti?

Una volta fritte e ben asciugate, è corretto passarne o frullarne una parte per garantire una certa cremosità?

La pasta si salta nell'olio o nel burro?

Ci va il caciocavallo, il provolone del Monaco, formaggi stagionati in genere, o bisogna aprire il campo ai latticini più asciutti?

La cremosità è frutto della sola mantecatura, o ci si aiuta con tuorlo d'uovo, amidi, o addirittura un pugno di semola, come certi sedicenti testimoni asseriscono?

A questo punto, per evitare che il caso diventi una puntata di quelle trasmissioni indigeribili sui misteri, la risposta è una sola: onore al merito di Maria Grazia e dei suoi spaghetti, e largo a chi vorrà omaggiarla tentando di farli.

Dopo il ricordo in forma di gnocchi, le zucchine avanzate dalla parmigiana meritavano di essere dedicate a un altro piatto che porta l'estate in ogni sua molecola.

Senza alcuna pretesa di rifare l'originale, ma semplicemente con l'intento di cucinare qualcosa di buono.

mercoledì 25 giugno 2014

Cucinare secondo le stagioni: parmigiana di zucchine


Premessa l'intoccabilità della parmigiana di melanzane, semel in anno licet coquinare quella con le zucchine, anche soltanto perché l'estate porta al loro meglio questi ortaggi.

In realtà, ne avevamo già parlato qui, le fonti attestano come parmigiana originaria, la ur-parmigiana, proprio quella di zucchine, antecedente alla diffusione del pomodoro, e insaporita con un intingolo di uova e formaggio che si identifica come condimento alla parmigiana.

La diffusione della variante con melanzane e pomodoro ha fatto sì che anche la versione con le zucchine alla fine si prepari quasi come la sua sorella più famosa.

Ed è un quasi di non poca importanza: infatti, nella parmigiana di melanzane napoletana le melanzane subiscono una frittura diretta, mentre già allargandosi alla provincia si diffonde sempre di più l'uso di passare le fette di ortaggio nella farina e nell'uovo.

Questa discrepanza, invece, non esiste per la parmigiana di zucchine, che anche a Napoli si fa ufficialmente friggendo le zucchine solo dopo averle infarinate e immerse nelle uova sbattute.

La zucchina però non è la melanzana: non puoi lasciarla spessa, altrimenti assorbirà l'olio di cottura; se la tagli a dovere ti troverai una montagna di fettine di zucchina da dorare e friggere, e quindi un lavorone anche più grosso dell'altra; il suo sapore non è intenso come quello della melanzana, e laddove nell'altra prevalgono acidità e amaro, la più tenue zucchina rischia di sparire accanto al saporito formaggio e al dolce pomodoro, motivo per cui bisogna farne una quantità industriale e stratificare molto di più la preparazione.

Tuttavia, il risultato è così sorprendente che vale veramente la pena affrontare il cimento e regalarsi questa delizia, omaggio alla bellezza del mondo nella calda stagione.

Rossopomodoro, sognando Napoli


Associare la tradizione, qualsiasi tradizione, alla catena di (ri)produzione non è impresa leggera.

Ma la pizza è piatto troppo famoso, goloso e popolare per non essere oggetto di simili tentativi, e non da poco tempo.

Rossopomodoro infatti è l'evoluzione di altre iniziative che, dopo aver visto la luce a Napoli città, si sono pian piano diffuse sul territorio nazionale, con sedi importanti a Roma e a Milano, e poi hanno ampliato le loro mire espansionistiche, per diffondere la cultura gastronomica partenopea ed esportare la pizza napoletana.

Anche nel cuore di Bergamo, nella centralissima via Angelo Maj, da più di un anno Rossopomodoro ha trovato il suo avamposto per affascinare i palati orobici con le delizie partenopee, puntando però anche sugli onnipresenti napoletani emigrati che naturalmente non mancano mai all'appello.


In un mezzogiorno che si annuncia infuocato, la sala che fa il verso alla popolarità, con il legno e il bianco, e tuttavia si inserisce nel contemporaneo con le vetrate, è pronta a ospitare lavoratori, pendolari, buongustai, turisti e chiunque abbia voglia di assaggiare le specialità napoletane.

Il menù è strutturato in maniera accorta alle nuove sensibilità: prodotti selezionati, non scontati, abbinamenti interessanti senza essere astrusi, pizze pienamente tradizionali e pizze che valorizzano le peculiarità territoriali, grazie anche a prodotti artigianali e presìdi Slow Food.

Accetto di virare sulla birra - Peroni riserva - gioco forza, dato che oltre al vino della casa - eccessivamente dolce per una cosa succulenta come la pizza - mi viene proposta solo un'etichetta troppo tannica mentre di quello che sarebbe stato ideale, cioè il Gragnano, ce n'è solo una mezza bottiglia da esposizione e sono in attesa di arrivi miracolosi.

domenica 15 giugno 2014

Gli spaghetti come Dio comanda: omaggio a Frank Rizzuti


Ogni tanto viene voglia di fare le cose come Dio comanda.

E in questa estate bergamasca che si scopre temporalesca, mi viene in mente che anche Dio, per fare gli spaghetti al pomodoro come lui stesso dovrebbe comandare, ha voluto chiamare accanto a sé Frank Rizzuti per insegnargli come si fa.

Questa è la domenica nella quale penso a come sarebbe stato bello andare a conoscerlo, indipendentemente dal riconoscimento della Michelin avuto pochissimo tempo prima di lasciare questo mondo.

Basilicata - come la mia Campania e tutto il Sud - vuol dire terra di sincerità, nella quale è più bravo a cucinare chi si sporca le mani con la storia della gastronomia locale, anche con le pagine più scure.

Penso alla prima sua ricetta incrociata sul web, che fece da Galeotto per me nei suoi confronti, addirittura un'acquasale, roba che i contadini del secolo scorso sfruttati e sotto - ma proprio sotto - pagati mangiavano per non sbattere a terra dalla fatica, intingendo il pane nero - e quando dico nero, intendo dire proprio black - in approssimate brodaglie per tirare a campare ancora un altro giorno.

Poi, un suo commento in cui rivela che lui lo spaghetto al pomodoro lo fa senza l'aglio soffritto di partenza, ma facendo asciugare - non del tutto, si raccomanda - i San Marzano e completando la cottura della pasta in padella.

Dev'essere stato lì che Dio, come tutti noi che leggemmo quella sua idea, così semplice, pulita e precisa come una stoccata, capì che neanche Lui avrebbe potuto fare uno spaghetto al pomodoro di divina fattura, anche leggendo e rileggendo la ricetta.

Come può essere, si sarà domandato, che una trovata così geniale non è venuta a me che so già tutto?

E come può essere, si sono detti tutti quelli che in un modo o nell'altro hanno sentito l'unico sentimento possibile verso quest'uomo, l'amore, che si debba subire una simile prova dell'ingiustizia di questa vita?

E come può essere, indegnamente chiudo io, che abbia aspettato così tanto, da quando ne ho letto, a fare questi inarrivabili spaghetti, così come ha insegnato Frank Rizzuti?

domenica 1 giugno 2014

A caccia di osterie: da Giuliana D'Ambrosio


A via Broseta, una sera di fine primavera, di quelle che ti pungolano a camminare per trovare un ristoro, è proprio il caso di dirlo.

Cielo incerto, arietta addosso, ci vorrebbe uno spazio aperto ma riparato, che so?, una bella veranda, dove magari assaggiare qualcosa di semplice ma soddisfacente.

Questa è la serata in cui la veranda di Giuliana D'Ambrosio può acquistare ancor più fascino, se mai ne abbia bisogno.

Quando vai alla trattoria D'Ambrosio, con i suoi tavoloni dove a volte siedono persone che non sanno ancora quanto sarà bello conoscersi di lì a poco, hai la sensazione di un'orgia della degustazione, tutti provano un immenso piacere gustativo e un meraviglioso benessere in quest'ovattata isola in cui Giuliana e la sua squadrona fanno sempre gol, come la sua amata Atalanta che la porta a chiudere il locale quando c'è da andare allo stadio.

I numeri fanno effetto: non c'è un buco libero eppure i commensali si susseguono, davanti alla cassa è un andirivieni di chi sta per sedersi a mangiare e di chi si congeda pagando quei 18, 20, massimo 25 € - per i golosi da tris di primi - e soprattutto ringrazia la Giuliana per il semplice fatto di esistere e di resistere, lei che qualche anno fa, dopo una serie di traversie private, aveva rischiato la chiusura.

Donna forte, di radici meridionali, papà che scommette sul caffè con bocciofila in un punto di Bergamo bassa oltre il quale c'erano solo campi, e che le vicende e le sfortune hanno portato sin da ragazzina a dedicarsi alla cucina e alla trattoria, diventando poi non tanto la sua fortuna, quanto la testimonianza di una dignità.