domenica 28 settembre 2014

Al Caffè Rubini per la tre giorni del fungo

L'autunno non si è lasciato pregare più di tanto e, nonostante alcune comparsate consistenti del sole, in provincia di Bergamo ormai ci si è lasciati dietro gli ortaggi colorati dell'estate per lasciare spazio a uva, zucca, castagne e soprattutto funghi.

A Romano di Lombardia poi, l'attivissimo Gruppo Micologico Romanese ha il suo appuntamento fisso a settembre con la mostra del fungo, che i ristoratori romanesi onorano con un fine settimana di menù a base di funghi, tutti convenzionalmente attestati sui 25 €.

Ho colto così l'occasione di visitare il Caffè Rubini, storico locale di Romano di Lombardia, che oggi vive la sua doppia vita di bar e ristorante in piena salute.

Certo, tra un menù fisso a tema e una carta ce ne passa, soprattutto per questo locale, del quale si favoleggia riguardo a un mitico antipasto di mare, piatto rischiosissimo su cui prima o poi mi toglierò ogni curiosità, perché nei miei concittadini acquisiti - che chiamano pesce i molluschi e i crostacei - ho una fiducia a responsabilità limitata.

Il locale è senz'altro una perla, valorizzato dalla posizione strategica, con i due scorci sulla piazza del centro da una parte e sulla rocca dall'altra, e si conserva con grande coerenza rispetto al borgo antico nel quale è immerso.

Così, mentre fuori passano figuranti in abiti medievali per la consueta sfilata, la serata del fungo può cominciare.

giovedì 25 settembre 2014

Colatura di alici: acqua per impazzire di piacere


Questa non è una ricetta, è un atto di rispetto.

Non è una ricetta perché non c'è alcuna trasformazione da parte mia degli elementi, fatto salvo l'uso delle dita per giustapporli.

In genere, una ricetta comporta un processo che modifica la vera e propria struttura di almeno una parte degli ingredienti, ma qui - a eccezione della trasformazione degli amidi della pasta attraverso l'infusione - gli ingredienti neanche si cuociono.

Però è un atto di rispetto, dicevo.

Rispetto per delle materie prime, degli elementi di partenza, dei prodotti che già da soli costituiscono pura eccellenza.

Il titolo lo annuncia, colatura di alici.

E potrai cercare quanto vuoi, non esistono ricette per usare la colatura di alici, nessuno si sognerebbe mai di disperderla in una pentola che cuoce, di mescolarla ad altre sostanze che rischierebbero di soffocarla, di sprecarla, insomma.

Per farla, a Cetara prima pescano le alici a cavallo tra primavera ed estate, poi le pressano col sale generando una lenta maturazione, e così dal pesce stilla quest'ambra preziosa, ma non contenti le fanno fare un secondo giro di colatura per essere proprio sicuri che ogni minima particella di gusto si inglobi nelle molecole d'acqua, e quando l'assaggi c'è tutta la storia di quelle migliaia di alici schiacciate ed eroiche.

Per avere rispetto di un tale filtro magico bisogna innanzitutto attenersi alla storia, più che alla tradizione.

E la storia dei cetaresi prescrive di usare la colatura di alici, a crudo, con la pasta.

Stop.

Sì, poi ci mettiamo grasso e odori, va bene, ma i due pilastri restano loro: la colatura di alici, e la pasta.

Una pasta che sia in grado di sostenere la forza della colatura dev'essere una grande, grandissima pasta.

E qui vengo al dunque.

Quando compri la colatura di alici stai comprando un distillato di felicità che arriva direttamente dalla fatica di un popolo.

Puoi risparmiare e comprare qualcosa che della colatura ne porta il nome, ma che è più trasparente di un tè leggero.

Oppure puoi scegliere di spendere le giuste centinaia di euro al litro - tanto la compri a decilitro e la usi a cucchiaini - perché, come si dice, il risparmio non è mai guadagno.

E per la pasta?

Considerato che le paste comuni oscillano dai due ai tre euro al chilo, io ti garantisco che per il doppio di quel prezzo o poco più - e sto parlando di chilo, non della porzioncina da mangiare - puoi acquistare paste che hanno ricevuto i più grandi riconoscimenti e che ti faranno seriamente dubitare di quello che hai sempre mangiato.

Non faccio nomi, né per la colatura né per la pasta, se no qualcuno pensa che sia una marchetta, ma se ti dico che sono spaghettoni e che fanno impazzire di piacere ci puoi arrivare anche tu.

mercoledì 24 settembre 2014

Da Vittorio, lo street food è stellare


Un incontro insolito, forse impensabile, un atto di coraggio che solo i grandi sanno compiere.

Oppure una naturale conseguenza della ricerca gastronomica, delle eccellenze del nostro territorio o semplicemente del buono.

Non so quale delle due strade abbia seguito la mente creativa di Chicco Cerea - patron del tristellato Da Vittorio -  quando ha ideato Gli artisti dello Street Food 2014, sicuramente uno degli eventi fondamentali dell'anno, ma so per certo che ciò a cui ho assistito ieri sera alla Cantalupa non è stata solo una festa del gusto, bensì una lezione di antropologia culturale purissima e soprattutto un la squillante lanciato alla cieca politica italiana.

Solo i grandi non temono di confrontarsi, e ci voleva uno chef di questa caratura per mostrare come sia possibile - non solo ai grandi maestri della cucina, troppo spesso chiusi nella loro torre - dialogare con la miriade di artigiani del gusto italiani, offrire loro la visibilità che meritano, e ricordare a tutti che paese siamo, che storie condividiamo, che tradizioni solcano la nostra formazione mentale e culturale, e che basta soltanto creare le condizioni affinché tutto il ben di Dio che si produce in Italia sia conosciuto, per avere un successo stratosferico.

Tempo fa qualcuno per esempio aveva avanzato la candidatura di Petrini a presidente della Repubblica, e forse l'idea non meritava di essere presa solo come una provocazione, se in Francia il prossimo Conseil de promotion du tourisme si avvarrà della presenza di Ducasse, Robuchon e Savoy.

Forse chiedere agli chef italiani un parere su come valorizzare veramente il patrimonio enogastronomico italico - ossia trasformare in denaro le risorse! - sarebbe la cosa più sensata, e l'esperimento di ieri sera, anche se statisticamente non probante, ha dimostrato che la gente sa riconoscerne il valore, se chiamata partecipa, e non ci sono più confini-barriera, la diversità regionale diventa l'arma segreta che moltiplica la ricchezza.

Finito il pistolotto politico, va da sé che la sfilza di leccornie stupefacenti, disseminate a bordo piscina, e la bravura degli artigiani invitati a far assaggiare le loro creazioni ha avuto dell'incredibile.

Creazioni che ognuno di essi realizza quotidianamente, in una cornice di normalità, che per una sera - grazie allo sfondo lussuoso della Cantalupa - acquistano prestigio ma soprattutto dimostrano di meritarselo tutto.

Così, dopo lo spritz iniziale, la passeggiata tra le bancarelle può cominciare.

lunedì 22 settembre 2014

Gourmet in trasferta: da Vuolo, l'eccellenza dell'umiltà


A Napoli il fermento del fenomeno-pizza sembra inarrestabile, e oggi i più importanti pizzaioli partenopei godono della stessa fama degli chef che affollano le televisioni, e dilagano nelle guide facendo incetta di premi e riconoscimenti.

Se contiamo le presenze, le iniziative, e i risultati ottenuti dai maestri della pizza di Napoli nell'ultimo paio di mesi - tra gli spicchi del Gambero Rosso, gli inviti nei templi dell'alta cucina, il matrimonio sempre più consolidato con grandi produttori di vino, come accaduto al festival di Franciacorta - non c'è nessun altro professionista della gastronomia investito a tal punto di visibilità, interesse e importanza.

La città che ha inventato la pizza non smette di approfondirla, cesellarla, perfezionarla, riuscendo però sempre a mantenere il rapporto corretto con la tradizione.

Eppure a Napoli, nel neonato Eccellenze Campane, ha trovato casa un pizzaiolo di tradizione, la cui forza non sta nell'immagine mediatica, nella macchina comunicativa, nel presenzialismo che a volte può decentrare l'attenzione dal prodotto principale, la pizza.

Con l'umiltà di chi ha imparato sin da bambino un mestiere, passatogli dal padre, Guglielmo Vuolo è riuscito ad avere gli stessi riconoscimenti di altri pizzaioli ben esposti ai riflettori, con la sola forza della capacità artigianale, della scelta degli ingredienti, della gestione del forno (un forno nuovo, anzi due, uno dei passaggi più difficili per un pizzaiolo).

martedì 2 settembre 2014

Gourmet in trasferta: fratelli Salvo, oltre i confini della pizza


Fare la pizza oggi a Napoli e nella sua provincia vuol dire avere il coraggio di confrontarsi con una tradizione più che secolare che può pesare come un macigno, perché la pizza è intoccabile e a volte lo è anche il folclore che gli si dipinge attorno.

Fare la pizza in questo territorio vuol dire mettersi in gioco con una concorrenza sterminata di bravi artigiani, tutti o quasi capaci oggi di ottenere il meglio da quel miscuglio semplice di acqua, farina, lievito e sale, e distinguersi è un'impresa, ma anche un imperativo.

Fare la pizza in queste condizioni e portare anche il cognome Salvo vuol dire infine sobbarcarsi il peso di una storia familiare illustre nel mondo della pizza, e sapere che, comunque vada, le persone tenderanno a semplificare, a vedere faide dove non ci sono, a fare improbabili classifiche che finiranno solo per dividere ciò che invece si dovrebbe sempre più unire e rinforzare: la potenza sul mercato mondiale dell'artigianato dei pizzaioli napoletani.

Fronteggiare queste difficoltà richiede una visione ampia, capace di andare oltre i confini della pizza e basta, ma saper guardare all'eccellenza degli ingredienti, equilibrare la qualità con i grandi numeri - perché di pizze se ne continueranno sempre a vendere numeri spropositati - e nello stesso tempo aprirsi a nuove esplorazioni e abbinamenti, sdoganando la pizza dalla semplice birretta e accostandola per esaltarla alle migliori etichette di vini italiani e internazionali, nonché realizzare un ambiente che trasmetta al cliente cura meticolosa, attenzione puntuale, coordinazione e precisione millimetrica dei dettagli.

Il modo in cui Francesco e Salvatore Salvo si misurano con la tradizione è rispettoso e nello stesso tempo indipendente, e se da un lato potenziano la bontà delle pizze tradizionali con ingredienti di qualità elevata, dall'altro giocano con il rapporto stesso che non solo il ristoratore ma anche il cliente ha o crede di avere con la tradizione.

lunedì 1 settembre 2014

Gourmet in trasferta: in principio era Gorizia


Da adolescente napoletano e vomerese, pensare alla pizzeria Gorizia significava già fare i conti con un pezzo di storia del mio quartiere, della città, e della storia della pizza napoletana.

Da quarantenne, emigrato, e appassionato sostenitore del piatto più geniale della storia umana, l'emozione di rimettere piede da Gorizia equivale a quella di chi si addentra in un monumento ultramillenario, di chi schiaccia il bottone di una immaginaria macchina del tempo, di chi comprende che il flusso della storia può sembrare - mentre lo si vive - confusionario e catastrofico ma che, sulla lunga distanza, dimostra sempre di aver ragione.

Nel 1916 Salvatore Grasso, figlio del pizzaiolo Antonio, si toglie la soddisfazione di aprire la sua pizzeria al Vomero, intitolandola in onore della città appena conquistata nel primo conflitto mondiale.

Da allora, un successo crescente con altre due date importanti, gli anni sessanta, con l'apertura della seconda omonima pizzeria, fino all'anno in corso, nel quale ha aperto la loro terza creatura, sempre al Vomero.

Questa storia si può leggere sul menù, sul loro sito, sui diversi blog che giustamente parlano di luogo memorabile.

Quindi, da novantotto anni tra queste mura, senza interruzione e stravolgimenti, si continua a sfornare pizze buonissime, pienamente rispettose della tradizione, perfezionate dall'evoluzione tecnica che ha investito il mondo della pizza degli ultimi tempi, senza stare per forza nel centro storico e senza gridare la propria presenza mediatica.

Ma la storia - quella con la S maiuscola - ha ragione, dicevo: se pensiamo ai grandi nomi della pizza napoletana contemporanea, quelli che ormai sono investiti di chiara fama ben oltre i confini partenopei, notiamo che la metà di questi non sarebbero nemmeno esistiti senza la pizzeria Gorizia.

Infatti, la figlia di Salvatore Grasso, Anna, sposò un Salvo, la cui discendenza oggi tiene in vita e in salute due se non addirittura tre delle pizzerie fondamentali di Napoli e dintorni.

Con il classico brivido lungo la schiena, al pensiero di essere immerso nel DNA della pizza napoletana, posso iniziare a godere delle bontà in arrivo.