La pizza mi sta diventando una specie di ossessione.
Non mi faccio capace - per dirla col mio idioma - di come sia così difficile per me trovare una pizzeria dove soddisfare la mia naturale, originaria propensione per questo piatto.
Tentativi riusciti ce ne sono stati, pure qua al Nord, soprattutto a Milano, dove stamattina cammino in un silenzio da eco, qua nei pressi di San Babila, dietro Largo Corsia dei Servi.
Ma questi tentativi sono ancora scandalosamente troppo pochi: mancanza di coraggio, di spirito imprenditoriale, prevalenza del chi m' 'o fa fa'?
Perché, mi chiedo, uno qualsiasi dei grandi pizzaioli ai piedi del Vesuvio, non se ne viene qua, sotto la Madonnina, e apre una bella pizzeria di quelle serie che davvero fanno sentire i napoletani di nuovo a casa?
Perché, mi rispondo, ci vorrebbe uno proprio grande, uno che non solo sia in grado di farla buona, 'sta pizza, ma che abbia la credibilità giusta per chi deve investire, e la notorietà appropriata per attirare non solo i partenopei emigrati, ma soprattutto i cittadini, i milanesi, se mai esistono ancora.
Pensa che bello - sì, ormai parlo con me stesso da solo, fendendo il vento tra i portici del corso Vittorio Emanuele II - se uno come Gino Sorbillo si decidesse a fare un simile passo.
Uh anema - intervengo nel mio soliloquio, neanche tanto mentale, ma sussurrato a fior di labbra, sicuro che la poca gente in giro non mi veda parlare tra me e me - chillo sì ca scassasse!
Sai com'è, non è che il pizzaiolo più famoso d'Italia, ospite fisso nelle trasmissioni di punta del settore gastronomico, potrebbe aprire nel pieno della città più importante del tuo paese una sua pizzeria e tu rimanere indifferente, snobbarlo, far vedere che il fatto non è tuo, e di gente che come te non rimane indifferente sai quanta ce ne sarebbe, e da lì oceani di persone pronte a mangiare la pizza più mediatica d'Italia.
In una domenica mattina come questa bisognerebbe sbrigarsi, frotte di milanesi già da mezzogiorno - perché quella è l'ora in cui aprirebbe, di sicuro - farebbero un'ordinatissima e incalcolabile fila per la pizza di Gino Sorbillo a Milano.
Veramente, questa della fila sarebbe la parte più scocciante, perché poi a Milano di questi tempi non è che l'aria sia delle più calde, per giunta se aprisse proprio qua, chiusa in quel quadrato di palazzi a ridosso di San Babila dove si è pure ben schermati dal sole, si intirizzisce, si battono i piedi a terra tenendo le braccia incrociate e le mani sotto le ascelle per non disperdere il calore corporeo, e quanto ci vuole per entrare sarebbe la frase più pronunciata.
Magari con un colpo di fortuna - a Napoli direbbero di mazzo - a qualcuno potrebbe pure capitare di vedere a Gino Sorbillo, con quei begli occhi lucenti messi in evidenza dagli occhiali raffinati, e la realizzazione di telespettatori-consumatori di pizze sarebbe completa, poi figurati come sarebbe buona la pizza fatta da lui in persona, anche se questo mi pare proprio un sogno, magari starebbe a registrare qualche mega-trasmissione, figurati se uno è così baciato dalla sorte da beccare proprio quel giorno libero tra una puntata sulla Rai e una su Sky, però come sarebbe bello, beati i napoletani che nella sua pizzeria ai Tribunali sicuramente hanno speranza di vederlo un po' più spesso.
Ma poi pensa che bella trovata, dopo aver aperto l'altra grande pizzeria sul lungomare a Napoli, Lievito madre al mare, qua non dovrebbe far altro che riproporre la formula, approfittando del grande monumento che proietta la sua ombra intorno, e intitolarla Lievito madre al Duomo, come suona bene, una formula così ti fa venire voglia e coraggio di aprirne dieci di pizzerie, in giro per il mondo, tutte chiamate Lievito madre a... dove vuoi tu.
Secondo me, lui potrebbe fare qualcosa di veramente sensazionale, che non fa nessuno, nemmeno a Napoli stessa e nemmeno lui nella sua città, qualcosa di pensato apposta per far arrivare il meglio della pizza nella sua concezione a questi milanesi.
Ma non dico nella scelta degli ingredienti, o delle birre artigianali e dei dessert che sarebbero rigorosamente provenienti da Napoli, perché ormai non solo Sorbillo ma la qualunque come minimo ha in carta presidi, biologico, rarità, e altre mirabilie dell'artigianato alimentare italiano e internazionale.
E non dico nemmeno qualcosa di spaventosamente moderno, avanguardistico, in linea con la città che più si proietta nel futuro, com'è Milano.
Secondo me, il colpo di genio sarebbe portare nella sofisticata Milano un modo di fare pizza che rimandi direttamente alle origini stesse del prodotto, che so... la pizza fatta a mano, per esempio.
Tu pensa, una pizzeria che in pieno 2015 si permette di offrire pizze il cui impasto è preparato rigorosamente a mano da un vero artigiano, un depositario della tradizione, un monumento vivente di un modo di produrre l'impasto che ormai è - quasi - del tutto scomparso, pure a Napoli.
Che grande colpaccio sarebbe, la madia che vince sull'impastatrice!
Per non parlare di quanto sarebbe buona, ma veramente buona, una pizza simile, niente a che vedere persino con quella di altre importanti e rinomate pizzerie alle quali pure bisogna riconoscere la loro grandezza.
Se ne potrebbe ricavare addirittura una trovata estetica, magari mettere il pizzaiolo in bella mostra, dietro una vetrina, con le mani che affondano nell'impasto, che ovviamente sarebbe quello per il giorno dopo, perché la pasta della pizza napoletana si sa che lievita e matura in almeno ventiquattr'ore, sebbene l'esibizione potrebbe nuocere alla concentrazione del pizzaiolo che impasta, rovinando anche il risultato.
Allora anche solo una madia da esporre come simbolo potrebbe funzionare, anche se mi viene il dubbio che qua magari la maggior parte delle persone manco riconoscerebbe che cos'è.
Quasi quasi converrebbe invece far vedere a tutti che la macchina impastatrice c'è ma è scassata, quale migliore prova che la pasta di quella pizzeria è rigorosamente fatta a forza di braccia?
Certo, se Gino Sorbillo davvero facesse una scelta simile, dovrebbe fare i conti con almeno un paio di problemi.
Il primo è che da Lievito madre al Duomo si potrebbero fare al massimo quattrocento pizze al giorno, non è proprio pensabile che a mano si riesca a fare più di 100 kg di pasta in maniera sostenibile per la salute del pizzaiolo stesso.
Sgarrare a questa cifra sarebbe veramente oltre le possibilità umane, anzi, converrebbe addirittura adottare un principio salomonico: non quattrocento pizze al giorno, ma duecento a ogni turno, pranzo e cena, magari mettendo pure un display che fa il conto di quante pizze restano.
Tenendo conto della fila che si formerebbe per la pizza di Gino Sorbillo, che è già un'attrattiva fenomenale, per giunta fatta a mano in tiratura limitata, se davvero poi si aggiungesse un contatore digitale che tiene aggiornati sulle rimanenti pizze, le persone in coda non solo rabbrividirebbero per il gelo, ma anche per il terrore di arrivare lì sulla soglia per vedere che quel coso digitale assottiglia i numeri sempre più velocemente, col rischio di dire addio alla pizza prima ancora di mettere il naso nel locale.
Questo però è solo il primo problema, quello del numero, della divisione tra pranzo e cena, del display, della fila, neanche tanto problema, se vogliamo.
Qua è il secondo problema a far grattare il capo: assodato che Gino Sorbillo già adesso non si può sdoppiare tra le due pizzerie napoletane - e aggiungiamo le recenti friggitorie in memoria della zia Esterina - figuriamoci se potrebbe mai triplicarsi per venire un attimo a impastare a mano un quintale di pizze.
Allora al nostro beniamino toccherebbe chiedersi a chi affidare una simile impresa, a chi dare le chiavi di questo debutto in una terra nuova, con un pubblico che sì conosce il suo nome ma che non ha provato direttamente la sua pizza, per giunta capace di tenere il ritmo delle pizze fatte a mano, con qualità costante, esperienza per far fronte all'impegno, e soprattutto arte nelle mani.
Certo, se così fosse, se davvero riuscisse a trovarlo e a dirgli tie', cca stanno 'e chiavi, fa' tu, Gino Sorbillo dimostrerebbe di essere due volte bravo, come pizzaiolo, per il nome che s'è fatto grazie al lavoro quotidiano, e come imprenditore, perché avrebbe saputo cercare e trovare qualcuno all'altezza dell'impresa, delegandogli la non facile missione.
Lo dicevo io che questo secondo problema è veramente rognoso.
Forse uno dallo spirito più milanese a questo punto già avrebbe trovato la soluzione, e direbbe ma chi se ne fotte della pizza fatta a mano, altro che macchina scassata in vetrina, mettiamola funzionante, 'sta macchina, le pizze le facciamo con l'impastatrice, stiamo tutti più tranquilli, non ci esponiamo a rischi inutili, e di pizze, visto che siamo in una grande piazza, ne facciamo mille, altro che quattrocento.
E so' pensieri che si fanno, mica tutti - soprattutto a Milano - possono sapere che a Napoli, anzi, appena fuori Napoli, in direzione del vulcano, c'è stata e continua a esserci una famiglia di pizzaioli che se gli dici di impastare 100 kg di pasta per la pizza a mano ti rispondono prima con un sorriso e poi facendo andare mani e braccia, finché non sentono che la farina, l'acqua, il lievito e il sale si stanno abbracciando con il dovuto amore.
Se lo sapessero, allora potrebbero pensare, come sto facendo io, che la soluzione ideale sarebbe che uno di questi, capaci di fare una tale magia, se ne venisse tomo tomo da Napoli al Duomo a impastare per far leccare le dita ai meneghini.
Sorrido anche un po', tra me e me, perché nella mia testa non è passato neanche mezzo secondo tra il chiedermi chi potrebbe chiamare Gino Sorbillo a compiere la missione, e l'apparirmi nitido nella mente un nome, con tanto di cognome: Gennaro Salvo.
Ma quest'associazione di idee non la può fare certo un milanese, che ne possono sapere?
Chi mai glielo può spiegare che la pizzeria più antica di Napoli - e che esiste ancora oggi - fu fondata da Salvatore Grasso, e che sua figlia Anna, sposando un Salvo, generò - tra gli altri discendenti anch'essi legati alla pizza - Girolamo, che diede da mangiare e insegnò a fare le pizze più buone tra Portici e San Giorgio a Cremano, e la cui lezione oggi sopravvive nei figli Salvatore e Gennaro?
Chi glielo può mai far immaginare che Salvatore ancora oggi tiene accanto a sé la madia per impastare a fianco al bancone in pizzeria?
Come dirglielo, ai milanesi, che Gennaro è un pizzaiolo talmente legato alla dimensione artigianale, a quei criteri di misura, silenzio ed educazione che suo padre Girolamo gli infuse per via sanguigna, raccomandandogli di tenersi le sue duecento pizze giornaliere invece di inseguire sogni di grandezza, doppi forni e passi più lunghi delle gambe?
Inimmaginabile, per loro - e quasi lo è anche per me - un uomo come Gennaro, che quando ti parla del padre ti mette il cuore sul banco e tu glielo vedi pulsare, pregio e limite nella sua stessa sensibilità, la forza dell'artigiano che sente la pizza, non la fa, la fragilità dell'uomo che filtra tutto sempre e solo attraverso il muscolo cardiaco.
Allora sì avrebbe senso quella ipotetica impastatrice scassata - magari scassata proprio da lui in persona! - a suggellare il patto di fedeltà tra Gennaro e la vera pizza, tra lui e l'anima inamovibile di Girolamo, da cui si sente abitato, guidato e guardato, allora avrebbe ragion d'essere, perché Gennaro sa e non ha paura di affermare che c'è un punto nello sviluppo umano in cui per andare avanti bisogna tornare indietro, e mai una macchina potrà dominare l'essere umano che l'ha fatta, e senza la cui mano che l'avvia non potrebbe neanche fare uno sbuffo, figuriamoci un impasto.
Me lo vedrei con quel sorriso tremendamente simile alla maschera di Pulcinella del Petito - e quant'è importante Pulcinella per lui, per suo fratello e per il loro padre! - che anche quando ride conserva un fondo di amarezza, dalla quale tuttavia non si lascia mai vincere del tutto, e di buona lena riprende a impastare, in modo fiero, eroico, addirittura romantico, come lo potrebbe definire una penna migliore della mia.
A questo penso, come trasportato in un delirio, un desiderio tutto onirico che mi farebbe felice fino alla lacrime se si realizzasse, felice per me che prenderei un treno alla settimana e me ne verrei a Largo Corsia dei Servi a mangiarmi la mia ossessione, felice per Gino Sorbillo ambasciatore dell'orgoglio della tavola napoletana, e felice per Gennaro Salvo che darebbe requie a quel cuore ca nun se sta quieto e che lui sa avergli fatto prendere svolte di vita determinanti, tutte pagate di persona.
Qualcuno pensa che i sogni sono belli proprio perché poi ti svegli e li confronti con la realtà.
E se qualcuno nella lettura si è sorpreso a sognare con me, come il folletto shakespeariano faccio ammenda:
Se l’ombre nostre v’han dato offesa
voi fate conto v’abbian colto
queste visioni così a sorpresa
mentre eravate in preda al sonno.
In lieve sonno sopiti ed era
ogni visione vaga chimera.
Non ci dovete rimproverare
se vana e sciocca sembrò la storia,
ne andrà dissolta ogni memoria,
come di nebbia se il sole appare.
Se ci accordate vostra clemenza,
gentile pubblico, faremo ammenda.
E com’è vero che io son folletto
onesto e semplice, sincero e schietto,
se pur ho colpe non mai ho avuto
lingua di serpe falsa e forcuta.
Pago l’ammenda senza ritardo,
o mi direte che son bugiardo.
Ora vi auguro sogni felici,
se sia ben vero che siam amici,
e ad un applauso tutti vi esorto
poiché ho promesso che ad ogni torto
a voi usato per insipienza,
gentile pubblico, faremo ammenda.
William Shakespeare, "Sogno di una notte di mezza estate"
Lievito madre al Duomo
Corso Vittorio Emanuele II 24/28 (Largo Corsia dei Servi)
20122 Milano
tel. 02 45375930
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