giovedì 12 marzo 2015
Romanée-Conti al M1.lle: tre passi nel mito
L'imperatore romano Costantino, agli albori del IV secolo, molto prima che i Burgundi vi infondessero il proprio nome, non fece neanche in tempo ad arrivare in quella che oggi chiamiamo Côte d'Or che subito gli fu chiesto un provvedimento speciale per salvarne i malridotti vigneti, ed è molto probabile che l'imperatore abbia acconsentito, visto che da allora, per la Borgogna e soprattutto per quel comune che dal popolo di Costantino prese il nome, è stato un crescendo.
Questa notizia rende giustizia al fatto che oggi dire Romanée-Conti è come pronunciare un sinonimo di mito o leggenda ma con tutta la forza che deriva dall'essere in realtà frutto di verità storica.
Se all'asta le bottiglie di questo glorioso Domaine possono superare i 35-40000 €, già nel XVIII secolo il vino messo a punto intorno al 900 dai monaci di St. Vivant, e che ormai aveva assorbito anche il cognome del proprietario, il principe Conti, pare costasse almeno sei volte più degli altri prodotti nei fazzoletti di terra circostanti.
E da allora, sebbene la storia del Domaine sia stata attraversata da cambi di proprietà e da nuovi assetti delle varie parcelle, ai singoli Crus non è stato cambiato neanche un granello, il che rende ancora più abissale il fascino di questo vino.
Così descritto può sembrare lontano come un miraggio, e invece l'Échezeaux 2001, il Romanée-St. Vivant 2001 e il La Tâche 2007 del Domaine de la Romanée-Conti hanno trasportato in piena Bergamo, al M1.lle Storie & Sapori, tutta la loro magia, grazie all'iniziativa di Alfredo Leoni di Top-Wine che ha organizzato con lo chef Paolo Stefanetti un evento da far tremare per la sua imponenza.
Se poi consideriamo che attorno alle tre bottiglie della Borgogna hanno ruotato un Dom Perignon Œnothèque 1996, uno Château d'Yquem Lur Saluces 1988 e un fuori programma come Grande Cuvée Krug - sboccatura 1996 - anche la sola capacità di immaginare questi vini tutti insieme può sembrare un vagheggio di una mente fuori dalla realtà, perché stavolta la realtà ha davvero superato sé stessa.
Già durante il benvenuto l'attesa per le tre dive in bottiglia si può toccare, e ogni momento a scandirla diventa passaggio rituale, dalla semplice contemplazione delle etichette all'apertura lenta e attenta, per allontanare i fantasmi che sempre si presentano prima dei momenti irripetibili.
Anche solo dai tappi la perfezione annunciata trova conferma, per tre vini che lo stesso Domaine definisce con pennellate decise.
Se l'Échezeaux è il meno tortuoso dei tre, già il Romanée-St. Vivant porta una forza ammaliatrice alla quale non si resiste, vuoi perché troppo potente, vuoi perché sarebbe semplicemente un peccato.
Quando poi si passa al La Tâche quelli del Domaine mettono bene in guardia: vino dall'autorevolezza angolosa, di quella intensità che emana spesso dai ritratti di Richelieu scaturiti dalla mano di Philippe de Champaigne.
E per passare dalla contemplazione all'azione, con il benvenuto di crema di zucca e paprika dolce e i divertenti lecca-lecca di Parmigiano, la prima levata di calici ha visto come ospite un Blanc de Noirs Heymann-Löwenstein, proveniente dalla Mosella e idealmente in sintonia con la Borgogna perché ottenuto esclusivamente da Pinot Noir, del quale si apprezza soprattutto il forte richiamo alla mela cotta.
Benvenuto, brindisi, chiacchiere introduttive per carburare, poi reggere ulteriori attese sarebbe impossibile, perciò si comincia sul serio.
Partenza ossequiosa all'insegna dell'esaltazione delle materie prime, ma con la voglia di metterci tecnica.
Così le ostriche, perfette per il primo bicchiere in lizza, non sono solo nude e crude ma anche vestite e cotte, un modo di servirle comprensibilmente poco gettonato, perché l'ostrica cruda è sacra, ma che comunque dà le sue soddisfazioni.
Con questo signore qua poi il connubio è a colpo strasicuro.
Dom Pérignon Œnothèque 1996 si racconta al naso con note agrumate prima di addolcirsi lievemente, e quando lo assaggi è un tripudio di imponenza, tensione, e un continuo vibrare a persistere deciso.
L'annata è famosa e tutte le grandi maisons all'epoca misero a punto champagne splendidi, grazie a un clima capriccioso e a un vento caldo d'agosto che fece maturare le uve come non mai.
Il giro in Vosne-Romanée prende l'avvio dall'Échézeaux 2001, ed è lui a metterci a nostro agio.
Vitigno precoce, per un vino che si esprime con grande chiarezza e che sa evolvere elegantemente con la sua acidità.
Balsamico, piacevole, di grande finezza, sicuramente di carattere discreto e accomodante, rispetto ai suoi fratelli.
Lo chef risponde con una stimolante idea d'ispirazione orientale.
Una caramella di scampi con salsa agrodolce, che scrocchia vivace e che coniuga la croccantezza al dolce-acidulo della salsa.
Anche qui, quando lo scampo emerge dall'involucro si riconosce subito l'altezza della materia, il resto è sapienza tecnica tenuta comunque col motore al minimo per non strafare.
Romanée-St. Vivant 2001 è il racconto di una seduzione.
Assodata la balsamicità di base, le note di peperone, confermate anche all'assaggio, possono ingannare, perché di lì a poco si trasforma, e ti avvolge in un lievissimo velo di morbidezza di cui ti accorgi solo nella persistenza, dopodiché il tuo cuore è preso e ti potranno portare quello che vogliono, ma tu non avrai altro Borgogna all'infuori di lui (anzi, di lei).
Il riso con carpaccio di gamberi si eleva e non sfigura accanto alla signora bottiglia alla quale offre il braccio.
Risotto di grande pulizia alla base, nel quale si celano dolcissimi gamberi, e a velare il tutto un disco di altri gamberi battuti e assottigliati - non un tecnicismo ma una trovata che aiuta il gioco di consistenze - che, pur peccando a tratti di eccesso salino, restituiscono quelle sensazioni veritiere del crostaceo crudo e appena intiepidito dal riso sottostante.
Il secondo è un piatto di scuola, dove il mestiere fa da garante.
Il branzino, semplicemente sublime per la sua qualità intrinseca, viaggia su un purè delicato ed è sormontato da un carciofo senza sbavature.
L'equilibrio tra rispetto dell'ingrediente e intervento tecnico ne fanno un piatto che stabilisce parametri di valutazione di che cosa dovrebbe essere la buona cucina.
E qui fa il suo ingresso La Tâche 2007 inondando di eleganza lo spazio circostante.
Imparagonabile ai due vini precedenti, innanzitutto per la differenza delle annate: probabilmente se invece di otto anni ne avesse anche lui quattordici come gli altri non ci sarebbe partita.
Il vigore e la finezza vengono fuori sempre più precisi alla distanza, e non regala facilmente la sua personalità a chi davvero non lo approccia con rispetto.
In chiusura, l'ennesima occasione per benedire il funghetto della botrytis cinerea.
Lo Château d’Yquem Lur Saluces 1988 è persino opulento per come investe di profumi e sapori, e ha il passo del grande classico che non tradisce.
Giustamente, Alfredo Leoni e Paolo Stefanetti hanno giocato di consonanza nella scelta del dessert.
La bavarese - anche nel finale una bella dose di tecnica - è contraddistinta da uno zafferano che fa l'eco al Sauternes abbinato, e il caramello salato riesce a chiudere con il guizzo dei finali felici.
Tra il carrello dei formaggi, le chiacchiere piacevoli e il desiderio di alzare ancora bicchieri, fa la sua comparsa quello che è stato definito a tavola un laboratorio di pasticceria.
Grande Cuvée Krug è davvero una festa di sentori tostati, caramellati, canditi, e la sua capacità di tenere gli anni - sboccatura 1996 - impressiona e lo fa apprezzare proprio perché maturo.
la sfilata conclusiva di queste glorie, sul tavolo, è come il saluto di una raffinata compagnia che - consapevole della propria grandezza - raccoglie applausi e ammirazione del pubblico, e anche noi non smettiamo di applaudire al fascino, all'eleganza, all'unicità di questi fortunatissimi tre passi nel mito.
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