martedì 5 luglio 2016

Al Monte Cura con Andi Fausto, il signore del tempo


È piuttosto strano per un produttore di vino cominciare a presentare i suoi vini parlandone male.

Andi Fausto sceglie di cominciare il racconto della sua esperienza di vignaiolo da questa considerazione che, proprio per il suo carattere insolito e disorientante, sintetizza in realtà lo spessore della persona, l’atteggiamento del professionista, la visione esistenziale dell’uomo Andi Fausto.

Per chi ha potuto, il 29 giugno scorso, udire le sue parole all’Agriturismo Monte Cura di Cristiano Cumini, l’esordio del suo discorso dev’essere stato spiazzante quanto salutare, di quelli che radono al suolo i preconcetti con i quali spesso inquiniamo l’ascolto degli altri, per lasciare un campo libero nel quale le parole di Fausto – portato lì ad Albino da Alfredo Leoni della Top-Wine – hanno potuto radicarsi e sviluppare con la giusta armonia.

L’iperbole d’altronde non è cercata per gusto retorico, ma è la sacrosanta descrizione di ciò che Fausto stesso pensa del suo Ardito 2011, il primo dei vini del percorso di degustazione abbinato ai prodotti e a i piatti dell’Agriturismo Monte Cura, a partire da speck, pancetta, salame e verdure sott’olio, che Cristiano e la sua famiglia realizzano con rispetto e qualità.

L’Ardito tecnicamente è un blend, descrive Fausto, e io penso che il blend sia frutto di un concetto sbagliato, perché è evidente che un blend non farà altro che livellare se non addirittura azzerare le peculiarità dei singoli vitigni dai quali derivano i vini.

Ma allora perché lo produce, verrebbe da chiedere naturalmente.

In realtà, il blend non è cercato ma è il naturale assemblaggio delle eccedenze annuali, che Fausto ha ovviamente sempre realizzato, destinandolo a un consumo interno o a una ristretta cerchia di amici, per il semplice fatto che gettare via non rientra minimamente nei suoi canoni, e fin qui ci può stare.

Tuttavia la richiesta dei clienti e dei ristoratori di avere un prodotto di costo inferiore - fidandosi però ciecamente della qualità che Fausto è in grado di garantire con i suoi vini - assieme al dato incontrovertibile della bontà del blend in questione - ha spinto il nostro vignaiolo a imbottigliarlo, battezzarlo e dargli piena dignità accanto allo schieramento delle sue altre bottiglie, da quelli che lui chiama quotidiani – e che in realtà sbaragliano alcuni tra i migliori piemontesi e toscani – alle riserve, fino ai prodotti di eccellenza assoluta.

Va sottolineato che già in questa scelta sull’Ardito emerge l’atteggiamento di ascolto della terra da parte di Fausto, che non progetta un vino a priori pensando a un target, ma cerca – conservando il massimo grado di rispetto per la vigna – semplicemente di rispondere a ciò che la terra gli dà di volta in volta, con l’intento di arrivare a ottenere il massimo da quelle determinate piante in quel determinato terreno e in quella determinata annata, se necessario anche stravolgendo qualsiasi strategia post produttiva, col rischio magari di deludere un pubblico in attesa.

Ma quando un mio vino comincia a piacere a tante persone sono io che comincio a preoccuparmi, rincara la dose, il nostro Fausto, non in modo spocchioso e snobistico, ma a sottolineare che se lasciamo fare alla terra, limitandoci a creare le condizioni necessarie per il suo auto sviluppo, azzerando la meccanizzazione, sostituendo in toto la chimica industriale con bioinduttori di resistenza come il latte e microrganismi autoprodotti in azienda - e laddove non siano autoprodotti si ricorre a piccole aziende locali, costituendo così una rete di solidarietà e sostenibilità - , le uve saranno in grado di tirare fuori una personalità sconosciuta, delle caratteristiche organolettiche inedite perché in realtà soffocate dall’interventismo, che il lavoro in cantina permetterà di completare nel rispetto di una dinamica naturale e non provocata con intenti finalistici.

Di conseguenza, vini di grande personalità che non possono piacere a tutti, come dovrebbe essere per tutti i prodotti realizzati con sincera artigianalità, cioè come si era sempre fatto nel nostro paese e che purtroppo ci si è colpevolmente dimenticati.

Tu fai… e lasciali parlare, recita la chiosa delle sue retro etichette.

Con la pazienza dei veri saggi, Fausto in tutti questi anni dev’essersela ripetuta parecchio questa frase, perché tutto ciò che oggi lo rappresenta – dal modo di trattare le piante, alle tecniche, anzi, le non tecniche applicate in cantina, dall’impegno vero e non sostenuto da alcun finanziamento pubblico nel sociale, ai criteri di selezione della clientela – negli anni passati è stato oggetto di derisione, di stigma, di vera e propria discriminazione.

Emblematico il caso delle guide di Slow Wine e dell’Espresso, che per anni lo hanno evitato più che ignorato – perché la sua sarebbe stata una presenza ingombrante – e poi di punto in bianco hanno deciso – con delle degustazioni non ufficiali – di inserirlo in guida, beccandosi una bella diffida a proseguire nel menzionarlo, perché la gente va aiutata quando ne ha bisogno; anni fa potevo aver bisogno di essere in queste guide, perché stavo costruendo; oggi che sono perfettamente autonomo, e che mi posso addirittura permettere di vendere il vino solo a chi mi sta simpatico, sono loro che hanno bisogno di me.

Non ha alcuna paura di dire le cose in faccia, Fausto, e non teme di sbandierare la rinuncia all’uso di trattamenti chimici che sarebbero obbligatori ma che lui non applica, bensì denuncia apertamente di non applicare, perché sa di poter dimostrare in qualsiasi momento che le sue metodologie rinforzano e sviluppano le piante, mentre i trattamenti prescritti per legge le danneggiano.

Uso del rame? Non se ne parla, solo microrganismi autoprodotti, macerati, oli essenziali e idrolati.

Lieviti selezionati? Non esiste, sono più che sufficienti i suoi indigeni che scherzosamente appella come cazzuti.

Filtrazione, chiarificazione, riduzione dell’ossigenazione, della maturazione?

Niente di tutto questo, anzi, residui e fecce con le loro azioni antiossidanti, botti scolme per favorire l’attivazione dei solfiti naturali, alcolicità non mitigata che permette le surmaturazioni ma che poi al palato non si percepisce, la vinificazione di Andi Fausto viaggia all’opposto del noto e del consueto, e non per spirito di contraddizione, ma per profonda conoscenza della cultura del fare vino, quella vera, storica, plurimillenaria, nel solco della quale Fausto si sente a pieno, e giustamente gli fa affermare non ho mai copiato, chi copia arriva sempre secondo, una scelta difficile da difendere quando il mercato attorno tenta di condizionarti in tutti i modi, anche con l’ostracismo che Fausto però è riuscito a disintegrare.

Non ho mai fatto due volte la stessa cosa, è un’altra dichiarazione emblematica, non una sparata per fare colpo, ma la descrizione di ciò che realmente in questi anni è accaduto, e chiunque scorresse l’elenco dei vini prodotti negli ultimi quindici anni scoprirebbe quanti di questi non sono stati più realizzati.

Per Fausto, infatti, la fidelizzazione del cliente deve avvenire sulla base della fiducia per il produttore e non per il gusto di un certo vino, perché se per determinate contingenze quello stesso vino dell’anno precedente non si può realizzare l’anno successivo, non è giusto andare a correggere il prodotto per replicare il vino che il pubblico sta aspettando.

Esemplare il caso della Poderosa 2014, che Cristiano accompagna con i suoi meravigliosi tortelli con pera e strachitunt (ricordiamo che questo formaggio è uno dei pochi erborinati prodotti senza muffe inoculate, ma semplicemente mettendo a contatto due cagliate a diversa temperatura che saldandosi non perfettamente lasceranno spazio all’ossigeno e alla produzione di muffe naturali).

Molti ricorderanno che nel 2014 l’estate praticamente non c’è stata, e quindi anche la barbera di Fausto – che di solito raggiunge livelli di residuo zuccherino e alcolicità importanti – non era riuscita a maturare nel pieno della sua potenzialità.

Così il nostro vignaiolo, cambiando in corsa e tradendo probabilmente le sue stesse previsioni aziendali, ha deciso di usare la bacca rossa per una vinificazione in bianco, più in linea con le caratteristiche di aromaticità e acidità che l’uva barbera aveva sviluppato per le particolari condizioni meteorologiche.

Ovviamente, nell’anno successivo, caratterizzato da un’estate nella norma, non è stato possibile replicare e quindi buon per chi la Poderosa l’ha potuta assaggiare, perché chissà se mai sarà possibile per Fausto rifarla.

Il profondo rispetto per la natura e per l’autenticità di un territorio caratterizza il largo impegno di Fausto nel recuperare tipologie d’uva un tempo peculiari e che per ragioni commerciali erano state abbandonate.

È forse per questo che con la tagliata di manzo di Cristiano, cioè con la materia prima che arriva direttamente dall’allevamento autoctono dell’agriturismo Monte Cura, Fausto abbia scelto di abbinare il suo Estro 2011, simbolo di uve e tecniche recuperate.

Croà, Moradella, uva di cascina e Vermiglia non sono assemblate come in un blend, bensì si tratta di un uvaggio in vigna, con le viti che contemporaneamente sono portate avanti nell’intero processo produttivo, metodologia che fino al secolo scorso era l’assoluta norma, e che grazie alla qualità delle viti e alla maestria artigianale di Fausto si condensano in un bicchiere che sa dialogare con la carne alla brace come e meglio dei grandi rossi di tradizione e consuetudine italica.

Mentre Fausto ci affabula, alle sue spalle spicca una barbatella della più antica vite europea, trovata per caso sette anni fa in un bosco, di origini georgiane, un’uva a bacca bianca che presenta tratti genetici affini a malvasia e pinot, e che con la sua proverbiale pazienza – nonché con l’aiuto di grandi professionisti della vivaistica – Fausto sta facendo sviluppare assieme ad altre nello stesso terreno nel quale saranno impiantate, lavorando al momento soprattutto nella fortificazione dell’apparato radicale, cominciando subito i suoi trattamenti diversi e prolifici, per ottenere un’uva che nel giro di venti-trent’anni farà molto parlare di sé.

È nel rapporto con il tempo, insomma, che si esplica al meglio la storia e il destino di Andi Fausto, un tempo a confronto del quale i sei anni di questa barbera Sottosera 2010 – che pochi non sono – restano in realtà una piccola parte dell’arco necessario a riportare il territorio della sua azienda alle condizioni migliori affinché diventi sostenibile, fonte di reddito virtuosa, autosufficiente e a impatto zero.

Con il tortino al cioccolato dal cuore morbido, poi, l’indole accattivante e l’intensità dell’estrazione di questa barbera finiscono per creare un’intesa preziosissima.

Sia Alfredo Leoni e la sua Top-Wine che Cristiano Cumini e il suo Agriturismo Monte Cura probabilmente rimarranno orgogliosi di aver creduto all'importanza di far conoscere Andi Fausto e il suo modo di intendere non solo il lavoro ma addirittura la vita, e lo rimarranno credo per lungo tempo, proprio quel tempo sul quale ha tanto da dire e insegnare.

Il tempo e Fausto, dunque, o forse si potrebbe dire che il tempo è Fausto, è favorevole per chi sa aspettare, come deve fare chiunque voglia avere un rapporto serio con la terra, ma è altrettanto favorevole quando si tratta di coglierlo, come attimo, per agire risoluti e rispondere a ciò che la terra in quel momento è in grado di offrire.

Il tempo di Fausto, un tempo lungo che non ha paura della sua lunghezza, nel quale ha costruito, disfatto, ricostruito, seguito un corso, abbandonato, riaperto un altro, in un’instancabile ricerca di onestà verso l’ambiente e congruenza verso se stesso.

E il tempo per Fausto, il tempo di oggi, gran signore che gli ha restituito centuplicati gli sforzi, le scelte, le rinunce, i no, i voltafaccia, le derisioni, e che adesso sono relitti alla deriva di un mondo senza coraggio che prima ha cercato di domarlo e ora addirittura lo bramerebbe come sua guida.

Tu fai… e lasciali parlare, ma che bello vedere che oggi non parlano più, se ne stanno muti, a riconoscere il merito e la grandezza del più geniale dei vignaioli.

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