venerdì 28 dicembre 2012
Dahlak: l'Eritrea a Borgo Palazzo
Quando ancora c'era la Festa dell'Unità a Celadina, conobbi per puro caso la saporitissima cucina eritrea degli amici del Dahlak a Borgo Palazzo - la foto è tratta dalla loro pagina Facebook ed è stata scattata in occasione della festa di Borgo Palazzo - e da quel momento il mitico ristorante eritreo africano di Bergamo è tappa obbligata per almeno due o tre visite l'anno.
Il nostro caro Artusi affermò che la miglior salsa che possiate offrire ai vostri invitati è un buon viso e una schietta cordialità: bene, qui al Dahlak di questa salsa saporitissima ce n'è in abbondanza, ed è una salsa che apre la mente, oltre lo stomaco.
Una cucina di colori, profumi e sapori che definire intensi sarebbe insufficiente, generosa nelle dosi, appagante nella sua degustazione - visto che prevede l'uso delle mani - e che la vicinanza sempre discreta ma puntuale dei titolari veste di calore familiare.
Lo dico subito: per me venire al Dahlak significa soprattutto mangiare lo zighni' completo e le tamia, ma qui puoi trovare anche piatti condivisi con altre culture africane, come quella del Maghreb, per cui largo al cous cous come alla tajin.
Per non parlare dei biscotti e delle torte di fronte alle quali l'interesse etnico passa nettamente in secondo piano, lasciando il posto alla pura gola.
lunedì 24 dicembre 2012
Se no che Natale è? 'A pizza 'e scarole
Dieci anni fa, con mio enorme stupore, scoprii che qui in provincia di Bergamo della vigilia di Natale, intesa come occasione per festeggiare, non importa niente a nessuno o quasi.
Ricordo addirittura un mitico 24 dicembre a cena in un ristorante cinese, e tutti gli anni sento gli stessi odori di minestrine a partire dalle 18 dalle finestre dei vicini, come se il giorno in questione non avesse nulla di particolare.
Per fortuna, il pranzo del 25 è più che lauto e quindi accettare questo cambiamento non è stato poi così difficile.
Tuttavia, il napoletano che è in me ogni anno cerca di tener viva la memoria del 24 dicembre alla napoletana.
Quest'anno ho affidato il compito di memorandum alla pizza di scarole.
La mia tradizione vuole che si consumi durante il pranzo del 24 per tenersi leggeri in vista del cenone.
Concetto di leggerezza relativo, che mi fa capire come i tempi siano cambiati, visto che la pizza di scarole può anche essere tutt'altro che leggera e soprattutto una fetta tira l'altra, per cui finisci per spazzolare tutta la teglia e addio leggerezza.
La scarola è una variante dell'indivia, anche se a Napoli l'indivia è solo l'anagramma del quasi omonimo peccato capitale, e ha gli stessi sentori amarognoli di tutte le cicorie, ma molto più tenui.
Si fa stufare con una serie d'ingredienti che vogliono quasi esorcizzare il rischio della mancanza di sapore: c'è la componente salina delle acciughe-olive-capperi, e quella dolce dell'uvetta-pinoli.
Io ci metto anche il peperoncino e chiudo tutto nella pasta del mio pane, con l'aggiunta di una generosa oliatura.
Se no che Natale è...
sabato 22 dicembre 2012
Tortino al cioccolato: di quello bianco ne vogliamo parlare?
Gli appassionati di dolci lo ammetteranno.
Non è che uno può fare il tortino al cioccolato fondente dal cuore morbido e non provare a farlo sostituendo il cioccolato fondente con quello bianco.
Perché mentre stai mangiando quello nero, subito l'idea guizza nella mente, con l'immagine della colata calda e bianca che potrebbe venirne fuori se solo te lo preparassi.
Questo pensiero l'ho avuto più volte, e ho provato e riprovato a fare i tortini al cioccolato bianco semplicemente sostituendo quello fondente con l'altro.
Purtroppo le intuizioni non sono sufficienti, e non credere a chi in giro dice che viene buono lo stesso.
In realtà, la cottura sfugge più facilmente, allora tu provi a toglierlo prima dal forno, ma a quel punto la crema che ne esce fuori è in realtà l'impasto di uova e farina ancora crudo, che non è il massimo.
Insomma, chissà perché il solo cioccolato bianco non riesce a creare la magia del tortino nero.
L'arma segreta però esiste, come puoi leggere tranquillamente dalla ricetta sul blog-ricettario più famoso dello stivale: il latte condensato.
Con l'aggiunta abbondante di questo ingrediente la magia riesce e il cuore morbido non sa più di uova e farina crude ma nemmeno di latte condensato puro, la cui dolcezza può risultare anche stucchevole.
Il latte farà da base nella quale il cioccolato potrà conservarsi e permetterà di arrivare alla giusta cottura dell'involucro, lasciando il mitico cuore morbido.
Prima di illustrarti come l'ho fatto, ti segnalo anche una variante trovata in rete, che sarà buonissima e mi riprometto di farla, però rispetto all'obiettivo del tortino morbido è una furbata: in pratica, è un involucro di pasta frolla con dentro il cioccolato che ovviamente a fine cottura - se mangerai il tortino caldo - risulterà sciolto.
Poveri ma buoni: jota col formenton
Questo cavolo cappuccio in sezione è degno degli esperimenti di Bruno Munari e dei suoi "alberi" ottenuti stampando a mo' di timbro i mezzi ortaggi intinti nell'inchiostro.
Forse somiglia un po' anche a un cervello, segno che il cavolo cappuccio è foriero di molte idee in cucina.
Intanto, si tratta di uno degli ortaggi più usati al mondo, adorato a oriente e a occidente, base di insalate come di piatti a lunga cottura.
Io poi lo amo particolarmente perché ha gli stessi sentori della verza ma più tenui, visto che la sua sorella verza spesso può dare fastidi digestivi, sopportabili comunque se ci si concentra sulla bontà estrema.
Coi primi freddi freddissimi, dopo ben due settimane imbiancate di neve, bisogna fare largo alle zuppe.
Così ho fatto una capatina mentale nel triestino, pescando una ricetta in grado di fare del cavolo cappuccio, insieme a poche altre cosucce ultra povere, una squisitezza da mangiare per giorni.
La jota - che io ho fatto col formenton - è una zuppa di cavolo e fagioli, spesso insaporita con ossa o carni soprattutto di maiale, che acquista particolare densità grazie a una sorta di roux preparato come base che inspessisce al punto giusto l'intingolo.
Ho provato a cercare un po' di storia, scoprendo che ci sono triestini convinti di una derivazione sia austriaca che slovena, e altri triestini ancora più certi che si tratti di una ricetta autoctona.
A tutti costoro dico che sia l'una che l'altra storia nulla tolgono alla magnificenza di questa zuppa sublime, che ho gustato anche il giorno dopo, ancor più densa della prima volta, forse ancor più buona.
A prenderli singolarmente, sembrano tutti ingredienti ordinari e mai si potrebbe immaginare che sommando ordinario e ordinario si arrivi allo stra-ordinario.
Invece il miracolo accade: vuoi per la tendenza alla cremosità, vuoi per il giusto grado di tenerezza del cavolo, vuoi per la sostanza dei fagioli, vuoi per l'affettuosità del caldo della zuppa, dopo due nevicate non c'è piatto migliore.
Forse somiglia un po' anche a un cervello, segno che il cavolo cappuccio è foriero di molte idee in cucina.
Intanto, si tratta di uno degli ortaggi più usati al mondo, adorato a oriente e a occidente, base di insalate come di piatti a lunga cottura.
Io poi lo amo particolarmente perché ha gli stessi sentori della verza ma più tenui, visto che la sua sorella verza spesso può dare fastidi digestivi, sopportabili comunque se ci si concentra sulla bontà estrema.
Coi primi freddi freddissimi, dopo ben due settimane imbiancate di neve, bisogna fare largo alle zuppe.
Così ho fatto una capatina mentale nel triestino, pescando una ricetta in grado di fare del cavolo cappuccio, insieme a poche altre cosucce ultra povere, una squisitezza da mangiare per giorni.
La jota - che io ho fatto col formenton - è una zuppa di cavolo e fagioli, spesso insaporita con ossa o carni soprattutto di maiale, che acquista particolare densità grazie a una sorta di roux preparato come base che inspessisce al punto giusto l'intingolo.
Ho provato a cercare un po' di storia, scoprendo che ci sono triestini convinti di una derivazione sia austriaca che slovena, e altri triestini ancora più certi che si tratti di una ricetta autoctona.
A tutti costoro dico che sia l'una che l'altra storia nulla tolgono alla magnificenza di questa zuppa sublime, che ho gustato anche il giorno dopo, ancor più densa della prima volta, forse ancor più buona.
A prenderli singolarmente, sembrano tutti ingredienti ordinari e mai si potrebbe immaginare che sommando ordinario e ordinario si arrivi allo stra-ordinario.
Invece il miracolo accade: vuoi per la tendenza alla cremosità, vuoi per il giusto grado di tenerezza del cavolo, vuoi per la sostanza dei fagioli, vuoi per l'affettuosità del caldo della zuppa, dopo due nevicate non c'è piatto migliore.
sabato 1 dicembre 2012
Apologia del tortino al cioccolato
Il mio primo tortino al cioccolato dal cuore morbido risale a una ventina d'anni fa ormai, non sono più neanche sicuro di quale fosse il ristorante.
Ricordo ovviamente lo stupore e il piacere per la colata calda di cioccolato che ne venne fuori prima di finire sulle mie papille.
Non fu subito un virus, anzi, questo dolce ci mise qualche tempo a diffondersi tra i ristoranti, ma è altrettanto vero che poi c'è stato un vero e proprio boom (e ti credo, se ne parla, tutti lo vogliono, prepararlo è uno scherzo, si tiene nel congelatore e si cuoce al momento, insomma, una manna per tutte le cucine!).
Da qualche anno si sono levate voci contro questo dessert, proprio a causa della sua capillarità nei menù più diversificati, e ormai si trova nel ristorante gourmet come nella pizzeria.
Non sono sicuro che ciò sia un male, anche se molti bloggers sul versante della critica lo hanno sostenuto, ma mi piace molto l'idea che una preparazione dal passato ricercato - il tortino uscì mentre nelle case si facevano le torte allo yogurt - possa invece trasferirsi dalle cucine degli chef a quelle di casa nostra, data la sua semplicità.
Insomma, fatelo, fatelo e fatelo!
Fatevene cinque o sei per volta, tanto ve li mettete nel congelatore, si conservano per mesi, poi quando vi viene il guizzo bastano dieci minuti di riscaldamento del forno e altrettanti di cottura per deliziarvi.
Accompagnatelo con... qualsiasi cosa: poiché quello che otterrete è una ricondensazione di cioccolato quasi puro, tutto ciò che di solito va bene col cioccolato fondente andrà benissimo col tortino.
Vai dunque con panne, gelati, frutta e per i più coraggiosi persino il gorgonzola naturale.
In questo autunno glorioso, sposatelo con un bel cachi maturo e che la dolcezza sia con noi!
Cucinare secondo le stagioni: castagne, cachi e fantasia
Il luogo comune vuole l'autunno come stagione spenta, associata a sensazioni mortifere, nonostante i colori e l'intensità dei sapori dei prodotti autunnali siano più vive che mai.
In questo piatto si sposano la cicoria rossa, comunemente detta radicchio, col suo violaceo affascinante, la castagna al forno con la sua forza e la sua perfetta superficie e il cachi con suo arancione quasi estivo e la consistenza della carne cruda dolce.
A proposito di carnosità: l'elemento carne - e grasso! - è deciso, grazie alla pancetta fresca glassata e ai gamberi.
Piatto intenso senza dubbio, in linea con l'imminenza dell'inverno, ma snello nell'assemblaggio, potendo accoppiare i vari elementi a piacimento.
Polenta: c'era una volta il mais Quarantino
E meno male che c'è ancora, potremmo dire.
Dopo la kermesse organizzata dall'ente Parco Oglio la settimana scorsa a Torre Pallavicina, mi sono ritrovato nuovamente al cospetto di questa stupefacente varietà di mais, detto quarantino proprio perché matura in quaranta giorni - in realtà un po' di più - dopo la semina, producendo una pannocchia più piccola, dai semi più tondi e lucidi.
C'era una volta perché si tratta di una varietà tra le più antiche e a rischio estinzione, quindi merito all'ente parco per la sua salvaguardia.
In tutto il nord la polenta è una base solida e inamovibile, anche se non siamo più nel periodo in cui a forza di mangiare solo polenta, date le scarse condizioni economiche, i contadini si ammalavano di frequente di pellagra.
Un po' snobbata dagli chef, in quest'epoca di scarsa considerazione per i farinacei da parte dell'alta cucina, è ancora il piatto domenicale, l'accompagnamento di stufati e intingoli sontuosi, per non parlare della sua capacità di stare accanto a pesci tipici del territorio, come le trote o il baccalà alla vicentina.
Da napoletano per me la polenta è stata una scoperta, mi spiace per la cattiva fama che ha tra i miei conterranei - che in realtà non la conoscono - e addirittura penso che il classico ragù napoletano e la genovese, preparazioni potenti, grazie alla cottura prolungatissima, siano partners eccezionali per questo tesoro ottenuto dal mais.
Viva la polenta, dunque, che mangio spessissimo con grande piacere, come in questa rapida, sostanziosa e saporita cena.
Unici elementi tecnici per la polenta: il rapporto farina/acqua dev'essere 1 a 4; se non hai il paiolo di rame puoi tranquillamente usare l'acciaio, ma forse hai una di queste meravigliose pentole di alluminio pressofuso che ti consiglio vivamente perché così i tempi di cottura si abbattono; infine, la farina va versata piano piano mescolando senza interruzioni, per non formare grumi.
Quando è cotta?
Te lo dice lei, staccandosi dalle pareti, sulle quali lascerà uno strato di farina caramellizzata che qui chiamano le croste della polenta e che, una volta raffreddate, puoi staccare come piccole cialde croccanti.
Dopo la kermesse organizzata dall'ente Parco Oglio la settimana scorsa a Torre Pallavicina, mi sono ritrovato nuovamente al cospetto di questa stupefacente varietà di mais, detto quarantino proprio perché matura in quaranta giorni - in realtà un po' di più - dopo la semina, producendo una pannocchia più piccola, dai semi più tondi e lucidi.
C'era una volta perché si tratta di una varietà tra le più antiche e a rischio estinzione, quindi merito all'ente parco per la sua salvaguardia.
In tutto il nord la polenta è una base solida e inamovibile, anche se non siamo più nel periodo in cui a forza di mangiare solo polenta, date le scarse condizioni economiche, i contadini si ammalavano di frequente di pellagra.
Un po' snobbata dagli chef, in quest'epoca di scarsa considerazione per i farinacei da parte dell'alta cucina, è ancora il piatto domenicale, l'accompagnamento di stufati e intingoli sontuosi, per non parlare della sua capacità di stare accanto a pesci tipici del territorio, come le trote o il baccalà alla vicentina.
Da napoletano per me la polenta è stata una scoperta, mi spiace per la cattiva fama che ha tra i miei conterranei - che in realtà non la conoscono - e addirittura penso che il classico ragù napoletano e la genovese, preparazioni potenti, grazie alla cottura prolungatissima, siano partners eccezionali per questo tesoro ottenuto dal mais.
Viva la polenta, dunque, che mangio spessissimo con grande piacere, come in questa rapida, sostanziosa e saporita cena.
Unici elementi tecnici per la polenta: il rapporto farina/acqua dev'essere 1 a 4; se non hai il paiolo di rame puoi tranquillamente usare l'acciaio, ma forse hai una di queste meravigliose pentole di alluminio pressofuso che ti consiglio vivamente perché così i tempi di cottura si abbattono; infine, la farina va versata piano piano mescolando senza interruzioni, per non formare grumi.
Quando è cotta?
Te lo dice lei, staccandosi dalle pareti, sulle quali lascerà uno strato di farina caramellizzata che qui chiamano le croste della polenta e che, una volta raffreddate, puoi staccare come piccole cialde croccanti.
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