sabato 18 aprile 2015
Al Bianchi: alla ricerca del tempo perduto e ritrovato
Quando si svolta per via Gasparo da Salò a Brescia, costeggiando il Museo Diocesano, la paura di non trovare posto ti morde alle caviglie.
Oggi è sabato e sgusciare dal mercato per infilarsi in queste viuzze ha un senso particolare: al sabato mattina, Al Bianchi, c'è il bertagnì come aperitivo, magari con il pirlo o con quello che ti pare.
E fosse solo quello: a ogni angolo, vassoi di pane e salumi affollano i piccoli spazi della stradina e della prima saletta allungata, lungo il bancone del bar che lavora senza la benché minima sosta, e una moltitudine di avventori, ai limiti della ressa, rende omaggio a questa che ormai è un'istituzione, più che un'osteria: Al Bianchi, dal 1881.
Franco Masserdotti e la sua famiglia ce l'hanno dal 1976 e ora sono alla terza generazione, ma già dal XIX secolo, nel passare di proprietà, nessuno si è più neanche lontanamente sognato di cambiargli il nome, anzi, il cognome, e con esso si è conservato - in modo più unico che raro - il vero spirito dell'osteria.
Seduto a far compagnia ad altri due clienti accanto, con naturalezza allarga la chiacchierata fino a noi e il dialogo si fa facile, divertito, vicendevole, con scambi di esperienze - mi consiglia addirittura un paio di pizzerie in zona, anche se lui, da frequentatore del Sud, sa bene che le tipicità si assaggiano nei luoghi d'origine - e i suoi stessi modi affabili, accoglienti, schietti, si riverberano in tutto il personale, così ogni informazione, ordinazione, scambio con i camerieri contribuisce a creare un sentimento, più che un'atmosfera, fortemente condito di verità.
sabato 11 aprile 2015
All'Antico Mulino i calici parlano francese
Incastonato in un paesaggio stravolto dalle necessità moderne - non ultima la Bre.Be.Mi. - e in posizione strategica come valico verso la Franciacorta, Rovato conserva tracce suggestive della sua antica storia.
Come il molino di mattina, sorto su una roggia che l'epigrafe fa risalire al XIV secolo ed esistente almeno dalla metà del XVI, anche se ricostruito interamente dopo un incendio, nel 1914.
Dopo il restauro recente, diventa location ideale per un ristorante di tutto rispetto, come l'attuale Antico Mulino, locale di punta qui a Rovato, in prima linea nella promozione e valorizzazione della cucina locale, assieme ad altri ristoratori riunitisi per l'associazione ristoratori di Rovato.
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martedì 7 aprile 2015
Gourmet in trasferta: quando verace fa rima con Surace
Il sorriso col quale Lello Surace mi ringrazia e mi saluta, quando mi presento e mi congedo, svela una inaspettata tenerezza, a confronto col volto concentrato di un attimo prima, preso a muovere le fila di camerieri e tavoli che vanno a riempirsi.
È una storia fatta di date, quella che sto per raccontare, di anni che si sommano e segnano l'importanza che questo locale, il ristorante pizzeria Mattozzi a piazza Carità, e la famiglia Surace che lo anima, rivestono nel destino della pizza napoletana e che non hanno intenzione di delegare a nessuno.
Si parte dal 1833, quando tale Antonio La Vecchia apre il locale col nome de Le stanze di piazza Carità, che per la posizione e il momento felice diventa un luogo d'attrazione significativo, restando tale anche nei successivi passaggi di proprietà.
Doveroso poi citare Luigi Mattozzi che vent'anni dopo diede il via alla propria dinastia di pizzaioli, disseminando i suoi figli in giro per Napoli con altrettante pizzerie.
Il più ardito dei suoi figli, Gennaro, fece il grande passo di acquistare nel 1924 proprio quelle che erano state le stanze di Piazza Carità, e così vide la luce l'attuale Mattozzi, sebbene le chiavi subissero altri passaggi di mano.
Gennaro, infatti, non avendo eredi, si affrettò a cedere poco prima di morire, nel 1958, ma le vicissitudini del locale continuarono finché circa un anno dopo Alfredo Surace - già direttore di sala presso la famiglia Mattozzi - se ne appropriò assegnando un cognome che resiste da più di mezzo secolo a piazza Carità.
Ma la storia non termina qui, perché il figlio di Alfredo, Lello, nel 1984 sancisce una santa alleanza con i Pace e altri pizzaioli rinomati, costituendo l'Associazione Verace Pizza Napoletana che promuove, valorizza e soprattutto difende la pizza, presentando dopo vent'anni un vero e proprio disciplinare STG.
Gourmet in trasferta: da Attilio, la casa della pizza
Tra dieci anni fate un giro a Napoli in via Pignasecca 17 e ordinate qualche pizza: ci troverete Mario Bachetti, il figlio di Attilio che, da come la racconta suo padre, già adesso a dodici anni ammacca i dischi di pasta con un'abilità fuori dal comune.
Che poi tanto fuori dal comune non è, perché se Attilio ha ricevuto il testimone dal padre Mario, che dal canto suo era stato investito del ruolo di pizzaiolo da Attilio suo padre e nonno del nipote omonimo dei giorni nostri, nulla di strano che l'arte della pizza venga assorbita quasi inconsciamente dal ragazzino, promettendo sviluppi interessanti e vita lunga a un locale che si avvia a diventare storico e che nel cuore dei napoletani lo è già.
Attilio Bachetti è un uomo di una semplicità esemplare, non perde tempo a mettersi in mostra, rifugge qualsiasi canale mediatico dal quale urlare l'eccezionalità della sua pizza - un'eccezionalità comprovata, sia chiaro - e investe il suo tempo, oltre che a mantenere una qualità costante al suo impasto, ad allargare le sue esperienze e la sua cultura gastronomica.
Mi si perdoni la digressione, ma la pizzeria da Attilio assume per me un valore anche sentimentale, perché innumerevoli volte ho sentito mia madre, quando risiedevamo ormai più lontani dal centro, quasi rimpiangere il non poter più scendere sotto casa - lei che abitava a un centinaio di metri dal locale - per mangiare quella che ha sempre ritenuto la più buona delle pizze.
Sono passati settantasette anni da quando nonno Attilio alzò la saracinesca della pizzeria per la prima volta, e il valore della memoria ha dato la sua impronta alla condotta professionale, seria, ma per nulla ingessata del nipote, affiancato dalla sorella e ancora protetto dalla madre, e ancora una volta la carta in più della famiglia si rivela determinante a fare la differenza tra la pizza e le pizzerie napoletane da una parte, e tutto ciò che passa sotto questo nome nel resto del mondo.
Attilio sa dove si trova, ha conservato un carattere di virtuosa modestia nel locale come nella persona, e nella sua silenziosa laboriosità esprime tuttavia la propria gratitudine alla gente, a chi si siede ai suoi tavoli e apprezza le sue pizze, esponendo la miriade di messaggi, versi, disegni che le persone continuano a lasciargli sui tovagliolini, nei quali esternano la loro soddisfazione per come hanno mangiato, e con la stessa meticolosità con cui concia le pizze, così incornicia e appende alle pareti quest'altra non meno importante moneta con la quale si sente ripagato del suo lavoro.
Il resto è conoscenza del mestiere, fedeltà a un modo di lavorare comprovato dalla storia, e rispetto per i clienti, con impasti di lunga lievitazione e maturazione, caratteristiche sulle quali si specula moltissimo, ma che mordendo la pizza di Attilio riconosci con i sensi e non con la mente.
Gricia's anatomy
Ti decidi a fare una ricetta semplice, col minimo degli ingredienti, più che classica atavica, come la gricia, pensando che almeno su questa e sul modo di prepararla non incapperai in alcuna diatriba o divergenza, e invece?
Non mi riferisco certo agli inciampi di Cracco alle prese con aglio,cipolla e panna, parlando dei grandi primi piatti laziali, no.
La questione è più datata, e io che sono pignolo, oltre che filologo, sono rimasto incastrato in un groviglio di varianti della ricetta, tutte ovviamente pretendenti al ruolo di versione originale.
I punti in esame sono diversi, a cominciare dal piatto in sé.
L'attribuzione dei natali a Grisciano - da cui il nome - , frazione di Accumoli, non vuol dire niente, perché l'area di produzione e utilizzo del guanciale, del pecorino e del pepe è sterminata, propagandosi in tutte le regioni toccate dall'Appennino centrale.
La prima vera domanda è in che rapporto sta con la cacio e pepe, l'amatriciana e la carbonara?
Per alcuni sarebbe una variante dell'amatriciana senza pomodoro, il che renderebbe entrambe le ricetto pressoché coeve, con una leggerissima precedenza per quella di Amatrice.
Ma se guardiamo agli ingredienti e a come in certe versioni degli stessi piatti vengono assemblati, l'evoluzione naturale, che va dal meno al più, dal semplice al complesso, dovrebbe vedere come più antica la cacio e pepe, quindi la gricia, e poi l'amatriciana e la carbonara (e stabilire quale di queste due sia precedente all'altra non è semplice, perché le fonti e il buon senso non collimano).
Sugli ingredienti c'è un altro piccolo nodo da districare, tra chi esige il pecorino di Amatrice, più umido, e chi quello romano classico, più duro e salato, ed è strano che tale pretesa compaia più spesso nelle ricette di gricia che in quelle di amatriciana, dove invece è più che tollerato il normale pecorino romano.
Anche il guanciale non è esente da polemiche, non in sé - impensabile sostituirlo con qualsiasi forma di pancetta, e tollerabile che possa essere di una qualsiasi regione centrale - ma nel modo in cui viene trattato sul fuoco: a parte l'idea - che io trovo eccessiva - di aggiungere altro grasso in padella, persino nomi importanti della cucina tipica romana non mancano di sfumarlo col vino bianco una volta reso croccante, cosa che invece nei paesini reatini non esiste proprio.
Sulla pasta e sul pepe non ho riscontrato restrizioni, e questo è comprensibile, perché rispetto alle altre paste laziali la gricia è tutta giocata sul grasso prodotto dal guanciale, che finirà comunque per fasciare qualsiasi formato.
Alla fine la gricia te la fai, un po' come ti gira, un po' scegliendo di pendere ora di qua e ora di là, e quando sei lì lì per metterla nel piatto, col pecorino che amalgama e le listarelle lucide di guanciale, dentro di te la versione originale è l'ultimo dei pensieri.
Gourmet in trasferta: Abraxas, tasty magic cooking
I got a tasty, magic cooking
I got a tasty, magic cooking
I got a tasty magic cooking
got me so hungry I can't stop
that she's a tasty, magic cooking
she's trying to make a greedy out of me
Quando guardi quel mare davanti all'Abraxas, già solcato da Odisseo e da Enea qualche millennio fa, capisci, anzi, senti che il confine tra il visibile e l'invisibile, tra il qui e l'altrove, tra il mondano e l'infinito sbiadisce per svelare la sua vera bellezza.
Una terra viva, tutt'intorno, che nei secoli ha parlato al cielo, aprendo crateri e voragini, poi colmatesi di acque strane, fumose, da affascinare ma anche da far rabbrividire, tanto che ai greci e ai romani venne facile identificare questi luoghi come sedi di forze profonde, dalla fucina di Efesto all'antro della Sibilla, fino al celeberrimo ingresso dell'oltretomba.
Nel bel mezzo di questi laghi diafani, e nella scia del mistero e di ciò che è al di là del consueto, Nando Salemme ha innalzato pietra su pietra l'Abraxas che, sin dal nome, ha la vocazione di spartiacque, proprio come gli anfratti dell'Averno separavano il mondo reale da quello dell'impossibile.
Partito come wine-bar e piccola osteria, l'Abraxas nacque con una precisa scelta di campo, ossia offrire una cucina non di mare in un contesto di ristorazione prevalentemente basato su pesce, molluschi e crostacei.
E come un varco verso altri lidi, Abraxas di pari passo puntò subito su un altro modo di intendere la cantina, dando spazio a vini che difficilmente approdavano in quelle insenature.
Il fortissimo legame con la terra, invece di essere un limite è stato il fattore virtuoso di Nando e dell'Abraxas, che ha presto assunto un'importanza unica, come cucina capace di proporre le peculiarità del territorio flegreo innanzitutto e campano in seconda battuta, e giustamente intessendo sin dagli albori un fitto dialogo con Slow Food e diventando un punto di riferimento per tutta l'area circostante.
L'avevamo già sottolineato su altre testate in occasione del decennale dell'Abraxas: non è esagerato dire che il ristorante di Nando è un vero e proprio modello imprenditoriale, perché ha fatto delle radici solide fondamenta, dell'originalità il fattore più copiato, e della capacità di rinnovarsi una meticolosa pratica di ricerca.
lunedì 6 aprile 2015
Gourmet in trasferta: da Carmnella, il cuore grande di Vincenzo Esposito
Ce l'ha proprio sul cuore, Vincenzo Esposito, il logo della sua pizzeria Carmnella, ed è più luminoso dell'insegna esterna, perché qui, lontano da salotti o dalle suggestioni del centro storico, sarebbe ancora più difficile affermarsi, se la pizza non fosse all'altezza, se la professionalità non fosse adeguata, e soprattutto se non ci si mettesse la giusta quantità di cuore.
Ora, imparare a fare la pizza è stato per Vincenzo relativamente facile, grazie a suo padre Salvatore, per mezzo secolo a capo dei banchi e dei forni dello storico Trianon.
E la professionalità, quando nasci e cresci in una famiglia che nella ristorazione si muove da più di un secolo, prima o poi la assorbi, ti permea, penetrando in ogni poro della tua pelle e possedendoti in modo assoluto.
Ma il cuore?
Il cuore arriva direttamente da Carmela Sorrentino, la Carmnella che mise alla luce e battezzò il primo locale, e nel nome della quale prima di Vincenzo - di cui Carmela era la bisnonna - già i suoi genitori si impegnarono a portare avanti la tradizione.
Sulle spalle di Vincenzo Esposito, dunque, grava senz'altro una responsabilità, quella di essere all'altezza di una storia partita al tramonto del XIX secolo, ma proprio grazie a questa storia di anni e di esperienze le spalle si sono fatte solide e la cucina e la pizza - che nell'ultima guida Gambero Rosso si è vista riconoscere i due spicchi - non smettono di stupire e migliorare.
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