martedì 26 maggio 2015

Gourmet in trasferta: Luca Bonizzoni salvi la regina


Fa la preziosa, la regina dell'alveare.

Anche se a chiedere udienza c'è nientemeno che Luca Bonizzoni, la personificazione dell'apicoltura.

Paludati nelle tute di protezione, non solo lo osserviamo manipolare i telai pieni di api, cera e miele, ma qui a Casteggio, nella sua terra, tra i suoi alveari, le uve e i salumi che riposano un sano sonno stagionatore, ci facciamo trasportare dalla sua espressività, tra la lezione e l'affabulazione, tra la correttezza scientifica e la teatralità, tra la dovizia di particolari e il guizzo geniale dell'uomo che sussurrava alle api.

lunedì 25 maggio 2015

Dessertmania: non diciamo cassate


Tra le ricette e la letteratura c'è un'affinità consistente: entrambi i prodotti sono semioticamente dei testi, ossia delle tessiture nelle quali si sovrappongono, si mescolano e si stratificano storie, epoche, testimonianze, passaggi, a formare il racconto di chi quelle ricette e quella letteratura l'hanno realizzata.

Sia i libri che i piatti, dunque, sono delle bellissime strade a ritroso, che permettono di ricostruire i passi compiuti per arrivarci, rinvenendo affinità ed eredità di e con versioni precedenti.

Il problema è che non sempre queste ricostruzioni sono perfette, e spessissimo non hanno il dono della veridicità.

Per questo, pur trovandole affascinanti, non do moltissimo credito alle storie e leggende sul cibo, perché spesso il racconto sulle origini di un piatto risponde a una necessità posteriore più che a una verità originaria.

Poter dire che una data ricetta è il risultato più o meno avventuroso di certe vicende umane è un valore aggiunto, conferisce un sapore non sensoriale ma mentale che fa la differenza, e poco importa se sia andata realmente così o meno.

La cassata al forno è uno dei migliori esempi di questo meccanismo.

Stando all'attualità, si tratta di un involucro di pasta frolla, isolato internamente da pan di Spagna, con un ripieno di ricotta zuccherata e insaporita con cioccolato e altre tracce di reminiscenza araba.

La vulgata la vuole antenata della cassata siciliana, quella in cui la ricotta è blindata nel pan di Spagna, contornato di pasta reale e ricoperto di glassa bianca di zucchero.

La prova indiziaria starebbe nel termine quas'at, che nelle lingue arabe indica una ciotola nella quale si mescolava del formaggio molle con tutti quegli ingredienti che i saraceni avrebbero sbarcato in Sicilia, dalla canna da zucchero agli agrumi e a certe spezie.

Questo impasto di formaggio arricchito veniva chiuso in un involucro di una non precisata pasta di pane e infornato.

Se davvero i saraceni erano usi a preparare questo dolce, di certo non usavano pan di Spagna e cioccolato, che arrivarono almeno con gli spagnoli.

Altro scricchiolìo in questa teoria è l'uso di frutta candita che, secondo alcuni integerrimi tradizionalisti siculi, sarebbe bandito dalla versione al forno, il che contraddice l'origine araba.

Gli amanti delle etimologie fascinose poi inventano letteralmente un fenomeno di assimilazione linguistica tra l'aggettivo glassata  - perché pare che il dolce con la glassa risalga addirittura al XVI secolo - e la parola cassata, e a costoro diciamo di rifare l'esame di glottologia più di una volta.

Il punto vero, che nulla ha a che fare con la ricerca di una cassata dei primordi, è che quella al forno è buona, probabilmente più di quella glassata, e non ce ne vogliamo i palermitani.

E se ti va di rifarla, ti spiego io come.

domenica 3 maggio 2015

Frattaglie e dintorni: la coratella


Frattaglie, quinto quarto, interiora, sebbene dividano inevitabilmente le persone sui comportamenti a tavola, oggi sono sotto i riflettori, vuoi perché il famolo strano è sempre un ottimo modo di distinguersi, vuoi perché se gli chef dell'alta cucina si abbassano a preparare questi scarti allora qualcosa di buono c'è.

Si tratta comunque di parti animali iper nutrienti, e qui i vari indirizzi dietologici si scornano a vicenda, tra chi li bandisce dalla tavola a chi li vorrebbe sette giorni su sette, e in mezzo una sfilza di cerchiobottismo di varia misura.

Se guardiamo agli animali notiamo che quando un predatore tiene tra le grinfie la sua vittima, la prima cosa che va a scofanare sono proprio le budella, gli intestini, gli organi vitali, il fegato.

Non a caso, nel mito di Prometeo, reo prima di aver aiutato gli esseri umani prima ingannando Zeus facendogli scegliere un involto di ossa animali ricoperte di grasso al posto di quello ripieno di ciccia, poi di aver fornito alla stirpe terrena il fuoco, un'aquila buongustaia ogni giorno va a divorargli il fegato che magicamente ricresce, perpetuando sì il dolore del titano, ma moltiplicando il piacere del rapace.

Tra le varie frattaglie delle quali la tradizione italica è zeppa, occupa un posto importante quella della coratella di ovini e caprini che in primavera, per la ricorrenza pasquale, è presente con grande disponibilità.

La tradizione romana la vuole coi carciofi, Artusi suggerisce di colorarla di rosso pomodoro, ma alla base sussiste sempre una buona rosolatura dopo un altrettanto buon lavaggio, per eliminare ogni traccia sanguigna.

Passa per un cibo da stomaci forti, sebbene questa coratella, di animali di piccola taglia, abbia sempre in realtà gusto assai delicato.

Provare per credere, ma gli increduli verso le interiora sono i più duri all'apostasia.

sabato 2 maggio 2015

Noter de Berghem: il Taleggio e la schisöla


Bernabò Visconti doveva senz'altro essere un gourmand ante litteram, perché quando a metà del Trecento si vide assegnare il feudo contenente il paese di Tilleggio, pensò bene di farsi omaggiare dai cittadini della zona con la bellezza di duecento forme di caseus bene stationatum.

Tilleggio diventa poi Taleggio e dà il nome a questo caseus che secondo alcuni risale alle tribù celtiche precristiane - anche se le fonti sono molto incerte - che già lo facevano nella caratteristica forma quadrata.

E infatti, bisogna aspettare la fine dell'800 per identificare col nome di Taleggio quello che s'era sempre chiamato strachì quader, la cui produzione nei secoli si era diffusa in buona parte della pianura Padana, perché gli allevatori - i bergamini più di tutti - salivano e scendevano, nel corso dell'anno, tra la bassa e le Alpi, per la transumanza.

In genere, si arrivava di nuovo in pianura nella seconda metà dell'estate inoltrata, il cammino era stato lungo, a essere stracch erano sia le mucche che i pastori, e così il formaggio prodotto più o meno a fine agosto prese il nome di stracchino.

I nomi sono sempre conseguenza dei fatti, nulla di strano dunque se lo stracchì quader addirittura assunse il quasi-toponimo di Milano - dove ne andavano ghiotti - definizione che compare alla pari con quella di fatto come in Val Taleggio, prima del definitivo battesimo.

Dal 1996 il Taleggio è DOP, ha il suo consorzio, le sue regole, la sua tutela, e soprattutto - grazie al lavoro di casari di grande tradizione - è sempre più un formaggio d'eccellenza.

La produzione del Taleggio, dunque, ha investito tutta la provincia di Bergamo e se in passato la delicata fase di stagionatura necessitava ancora del clima alpino - alle origini, le forme si facevano stagionare nelle grotte - la tecnologia moderna permette anche alle aziende di pianura di realizzare tutto il processo produttivo di questo formaggio che  - a differenza di quelli caratterizzati da un'origine prevalentemente montana - si può ben dire bergamasco a tutti gli effetti.

Ora, io mi trovo questo tesoro, realizzato da Massimo Taddei - qui il racconto della mia visita nella sua azienda - che la luce del sole magnifica, lo sto centellinando fetta dopo fetta, giorno dopo giorno, e mi regala profumi e sensazioni caratteristiche, con questo ricordo di bosco e di tartufo, e il bellissimo gioco tra la percezione pastosa e una vena appena percettibile di acidità.

La maturazione fantastica - questa forma è stagionata per ben 60 giorni - va dall'esterno all'interno, così basta appoggiare la punta del coltello nel sottocrosta per scoprire che lì la cremosità è sorprendentemente avanzata.

Oltre a essere incredibilmente buono al naturale o con i classici abbinamenti da formaggio come confetture o miele, il Taleggio si usa come formaggio da farcitura più o meno a 360 gradi, e l'intensità del suo profumo e del suo sapore non devono trarre in inganno, perché sa sposarsi bene con tantissimi altri ingredienti.

Ma nella cultura popolare bergamasca, il Taleggio si mangia con la polenta, anzi, la polenta diventa il contenitore del formaggio, in un piatto tipico chiamato schisöla, in forma di pallottole farcite che vengono poi abbrustolite o addirittura fritte in olio, dopo un passaggio nelle uova; oppure semplicemente facendo raffreddare la polenta e alternando le sue fette con altrettante di formaggio, prima di un'ultima miracolosa passata in forno, fino a far sciogliere questo antico signore dei formaggi, che i secoli non intaccano, le mode non snaturano, e il buon gusto non può non onorare.