domenica 9 dicembre 2018

La Taverna di Arlecchino: il territorio, secondo Franco Moretti


Arrivare a Oneta in una sera alle porte dell'inverno, col freddo che attanaglia, per andare a rifugiarsi in una taverna calda - non solo metaforicamente - sui cui tavoli arriveranno piatti corroboranti che sono perfetta espressione del territorio è qualcosa che va ben oltre il semplice "andare a cena fuori".

La Taverna di Arlecchino di Franco Moretti, infatti, è come un nodo che stringe attorno a sé i fili di percorsi storici che dalla gastronomia slittano nella vera e propria storia sociale nonché in quella dell'arte figurativa e performativa.

Nel piccolo borgo di Oneta, frazione di San Giovanni Bianco, si celano le tracce di una vicenda rivelatasi poi determinante per lo sviluppo della Commedia dell'Arte e del teatro europeo.

Già dal XVI secolo, infatti, la casa padronale che sorvegliava la via Mercatorum per andare dalla Svizzera all'attuale Lombardia fu identificata come la casa di Arlecchino, attribuzione indotta probabilmente dalla stessa famiglia Grataroli, proprietaria dell'edificio, che forse contribuì involontariamente alla costruzione del mito di Arlecchino, per aver portato con sé a Venezia alcuni valligiani per svolgere lavori di fatica nelle proprietà di città.

A dire il vero, un fenomeno importante di emigrazione dalla Val Brembana verso il Veneto era già in corso dalla metà del Quattrocento, poiché le risorse scarseggiavano e l'unica salvezza era andare a prestare le proprie braccia come facchini laddove ce n'era più bisogno.

Così, la gran parte dei servi e dei braccianti già dagli inizi del XVI secolo nelle città più laboriose del lombardo-veneto parlavano bergamasco e soprattutto dovevano affrontare, con la loro schietta ingenuità, le insidie della maliziosa e spietata vita mercantile cittadina.

Alcune ricerche dimostrano che addirittura i termini facchino e bergamasco fossero percepiti come sinonimi nella Venezia del primo Cinquecento, e che a far partire l'identificazione del personaggio dello Zanni e poi di Arlecchino con Bergamo sia stata la scelta di certi attori di far esprimere alcuni personaggi di servi con una lingua che scimmiottava il dialetto orobico, perché nel pubblico scattasse immediatamente l'associazione con i veri facchini che popolavano le vie.

Uno di questi personaggi, ai quali fu assegnato il nome di Arlecchino per le sua somiglianza fisica e comportamentale con il diavolo Alichino, fu poi portato al successo da Zan Ganassa, attore bergamasco, e così la variopinta maschera aderì per sempre al territorio di Bergamo fino a diventarne uno dei principali simboli.

Nella stessa casa di Arlecchino, della quale la taverna occupa l'antica scuderia, c'era affrescato inoltre un esemplare di homo selvadego, vestito di pelli e armato di clava, la cui rozzezza e istintiva vitalità in qualche modo possono essere state antichissimo stampo dei tratti del personaggio secoli e secoli dopo.

La distanza tra questo escursus storico e l'esperienza di sedersi ai tavoli della Taverna di Arlecchino per assaggiare i manicaretti di Franco Moretti è solo apparente, perché il modus operandi è completamente improntato all'armonia con il territorio e con ciò che esso può offrire a chi lo vive.

Non si tratta di rifare la cucina di tradizione per citarla come un'operazione di riesumazione culturale, ma di cucinare meglio possibile ciò che quel territorio realmente offre e vivere questa pratica come la cosa più naturale, per dar vita a un'armonia perfetta.


Dalla sua, Franco Moretti ci mette poi una grazia che si rivela ingrediente determinante, tale che una cucina solitamente percepita come greve risulta invece persino delicata, nella quale i sapori non aggrediscono ma accarezzano il palato, anche quando la materia di partenza è uno schiettissimo salsicciotto con la verza.

L'insalata russa è piacevole oltre a essere tecnicamente perfetta, per consistenza delle verdure ed equilibrio tra dolce e acido, e ti fa venire voglia di rivederla trionfare su tutte le tavole e uscire dal limbo nel quale l'hanno imprigionata, se ben fatta come questa.

Sul tagliere, il racconto dei sapori riesce a conservare lo stile gentile delle altre portate, anche quando a esprimerlo sono lardo, salame, bresaola, speck, formaggio di montagna e una frittata di fattura magistrale.

In questo continuum di levità gustativa si insinuano i sorsi del pregiato Patrizio di Eligio Magri, la cui forza tannica e alcolica tuttavia arrivano in modo vellutato ed elegante, cosicché anche nel vino si ritrova la stessa armonia dei piatti.


Nei primi c'è tutta la perizia di un cuoco che sa eseguire con grandissima pulizia la sua cucina del territorio, per questo i casoncelli hanno una finezza inusitata, e la componente dolce dell'impasto si rivela soprattutto nella fase di persistenza, creando un gioco di sapori ben distinti.


La pasta ripiena e la miriade di sue varianti caratterizzano con forza tutta la cucina del Nord Italia, e con i prodotti genuini che ogni territorio è solito produrre non è mai stato difficile costruire combinazioni intriganti.

La barbabietola compare spesso come elemento essenziale del ripieno per i ravioli, secondo un'usanza che dall'Alto Adige si estende nella vicina Lombardia, così Franco prepara i suoi con l'aggiunta di ricotta e un ragù di agnello a completare con nerbo la sensazione complessiva di un piatto egregiamente riuscito.


Alla base dei secondi emerge in maniera chiara la matrice del rapporto con la terra, vissuto attraverso l'agricoltura, l'allevamento e la preparazione di selvaggina che ciclicamente ci si può procurare, sempre nel rispetto di quell'equilibrio con la  natura di cui si è ospiti.

Se Arlecchino è simbolo storico-culturale in senso lato della bergamasca, sicuramente il simbolo della tavola orobica è la polenta, che qui in Val Brembana non può che essere taragna con burro e formaggio, e trattenersi dall'affondare il cucchiaio è arduo.

Le carni, tra bocconcini di vitello, cinghiale e coniglio, sono servite in versione semplice e canonica, ora in umido, ora passate in forno, assieme all'uovo, che uno strato di polenta e una coltre di tartufo vestono a puntino, e danno la conferma di una mano che sa trasferire garbo in ogni piatto.


Creme brulée al rum, semifreddo e torta cioccolato e nocciole sono ben realizzati e godibili, e seppur escono dal vero e proprio territorio, sono la giusta concessione agli avventori che trovano un ulteriore gradino verso la felicità nel dolce finale.

Nonostante il freddo paralizzante all'uscita, mentre ci si incammina per la ripida stradina che esce dal borgo ci si accorge che la Taverna di Arlecchino è un luogo prezioso, in cui nulla è fuori posto - dalla location di alto valore storico agli arredi caldi ed essenziali - tutto sembra della giusta misura - dalle porzioni aggraziate alla gentilezza impagabile di Franco e delle sue collaboratrici - in un insieme coerente con il contesto - dalla scelta degli ingredienti agli abbinamenti proposti in carta - e tutto ciò si tramuta nel tepore di sentirsi fortunati di esserci stati, con il desiderio di tornarci nella bella stagione per scoprire quanto è bello assaporare i piatti di Franco sotto i porticati del borgo antico di Oneta, con lo sguardo di queste stesse stelle che - arrivati in cima - si dispiegano in una strabiliante bellezza.

via Oneta
24010 - San Giovanni Bianco (BG)
tel. 0345 42458
Chiuso Lun/Mar, Agosto sempre aperto

Nessun commento:

Posta un commento