mercoledì 5 luglio 2017

Da Caiazzo a Erbusco: Franco Pepe e La Filiale


Quasi nascosto dal fitto bosco de L'Albereta, sui pendii di Erbusco, il gazebo de La Filiale è attraente come la promessa che campeggia sulla facciata: l'evoluzione della pizza.

La scena è stata attentamente progettata, da Franco Pepe, Martino De Rosa e la famiglia Moretti, affinché la vista per chi si inoltra nel viale alberato sveli, anzi, srotoli ramo dopo ramo l'edificio a due piani nel quale Franco ha dato alla luce la sua nuova creazione.

Non a caso parlo di srotolare e di dare alla luce, giacché evoluzione è letteralmente ciò che accadeva ai papiri quando venivano appunto svolti per essere letti, e il suo primo significato è proprio l'insieme di azioni che partoriente e bambino compiono affinché una nuova vita si affacci nel mondo.

In una natura florida, tra alberi affascinanti che svettano interrompendo il mare di vigne della Franciacorta, proprio nel tempio dove Gualtiero Marchesi celebrò sé stesso e la sua cucina inarrivabile, Franco Pepe - in stretto dialogo con Fabio Abbatista, chef del Relais - ha portato la sua esperienza di maestro pizzaiolo, ma soprattutto il suo sguardo armonico ed equilibrato, dettato da quella misura che lo contraddistingue come professionista sempre aperto al confronto, che sa condividere il lavoro e i meriti che ne derivano, che sa valorizzare e far sviluppare, anzi, evolvere, come ha già dimostrato con il suo Pepe in Grani, ormai non più solo una pizzeria ma una scuola di vita, il primo vero microsistema in cui agricoltori, allevatori e artigiani produttori delle materie prime sono parte integrante del locale e della sua offerta, seguiti di persona dallo stesso Franco e dai suoi collaboratori, tra i quali Vincenzo Coppola, interpretando un'idea di sostenibilità che potrebbe fungere da esempio culturale e imprenditoriale a tutta l'Italia.

domenica 23 aprile 2017

DiVino inVino, di meraviglia in meraviglia


La celebre illustrazione di Sir John Tenniel che raffigura il bianconiglio di Lewis Carroll traspare dietro il bel gioco di parole, DiVino InVino, che dà il nome a questo prezioso luogo, pieno di meraviglie come il paese in cui amò perdersi Alice.

Un viaggio, dunque, di vino in vino, nella stupenda cantina sotterranea, il cuore che Luca Cattaneo e Cristian Gherardi hanno deciso di far battere qui a Gorlago, prendendo coraggio e passione a due, anzi, a quattro mani e realizzando un'enoteca con cucina che rispecchiasse il loro gusto e il loro credo.

sabato 8 aprile 2017

La scienza di Artusi e l'arte di mangiar bene dei Falconi


La lunga vita de La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene sembra davvero inarrestabile, e grazie a Marco e Giorgio Falconi della celebre trattoria di Ponteranica, Pellegrino Artusi sicuramente si sarà sentito ancor più beato nel vedere le sue ricette e i suoi piatti animare la godereccia celebrazione del suo mito.

Una cena d'altri tempi - questo il nome dell'evento ideato dai Falconi - si è svolto in un clima che all'Artusi sarebbe senz'altro risultato gradito, in una serata con protagonista la cucina, quella bricconcella che fa sì disperare ma che grazie a Giorgio in cucina e a Marco in sala è stata capace di dar piacere, perché - come dice lo stesso Pellegrino Artusi - quelle volte che riuscite o che avete superata una difficoltà, provate compiacimento e cantate vittoria.

L'idea di confrontarsi con quello che giustamente si può considerare il testo sacro della cucina italiana, e tutt'ora l'unico testo che si possa definire manuale ufficiale della cucina del nostro paese, è frutto della sinergia tra i Falconi e l'Associazione Produttori e Amici del Moscato di Scanzo, che ha sede proprio nella storica trattoria, e che per iniziativa del presidente Frida Tironi e di altri produttori e sostenitori si propone di valorizzare a pieno l'eccellenza del Moscato di Scanzo, meraviglioso vino da meditazione che dal 2009 si fregia della Denominazione di Origine Controllata e Garantita.

Ma l'evento, per le sue caratteristiche non solo gastronomiche bensì culturali, è un atto dovuto e quanto mai opportuno, da parte dei Falconi che, con la loro trattoria, sin dagli anni sessanta del ventesimo secolo, si sono ritagliati il ruolo di tempio della cucina tradizionale, declinata però con competenza e attenzione alle materie assolutamente degne delle più alte cucine (Marco e Giorgio sono chef e sommelier titolati, delegati di importanti associazioni enogastronomiche, consulenti e collaboratori per le istituzioni scolastiche e del territorio ai fini della valorizzazione della cucina e del patrimonio gastro-culturale lombardo e italiano).

Teatro ideale, dunque, la trattoria Falconi, e perfetta progettazione e organizzazione di Frida Tironi e degli altri Amici del Moscato di Scanzo, per far andare in scena alcune delle ricette protagoniste del celebre libro dello scrittore di Forlimpopoli.

giovedì 30 marzo 2017

Da Falconi, con Artusi, a fare i goderecci

Nel 1905, Alfredo Panzini - romanziere di successo e Accademico d'Italia - sottolineò che con La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene Pellegrino Artusi era riuscito in uno dei miracoli ai quali ambiscono gli scrittori, ossia identificare libro e nome, tanto che ancora oggi il mitico manuale della cucina italiana è denominato l'Artusi.

Chi si occupa di cucina - dagli appassionati ai grandi cuochi - conosce il carattere imprescindibile del libro dello scrittore di Forlimpopoli, capace di costruire un mosaico coerente le cui tessere sono le innumerevoli ricette delle tradizioni regionali italiane.

In omaggio a questo monumento della cucina italiana - che si può dire tale proprio grazie all'Artusi - e persino della letteratura - il libro viaggiò al ritmo di una riedizione all'anno nei primi trent'anni dall'uscita - giovedì 6 aprile, Marco e Giorgio Falconi promuovono presso la loro trattoria una Cena d'altri tempi; i piatti della tradizione e le ricette di Pellegrino Artusi.

domenica 26 marzo 2017

Al Carroponte, le ragioni di un successo annunciato


Ho provato a contare i riconoscimenti che Oscar Mazzoleni e il suo Carroponte hanno incamerato in questi ultimi mesi, e non è stato semplicissimo.

Dalla fine dell'autunno scorso fino a poche settimane fa gli sono arrivati il premio Vite Colte della Guida Espresso, il titolo di miglior bistrot dell'anno dal Gambero Rosso, la Corona Radiosa della guida Gatti-Massobrio, la Buona Cucina del Touring, nonché il titolo personale per Oscar di Chevalier de Champagne dell'Ordre de Coteaux.

Ma la sfilza di soddisfazioni non mi stupisce, visto che sei mesi fa ero andato a dirglielo di persona che secondo me, nel 2016 che stava terminando, Al Carroponte era stato nettamente una spanna su tutti e che il suo obiettivo - ossia portare il suo enobistrò nel novero delle Krug Ambassades - sarebbe senz'altro stato raggiunto nel 2017.

E quando ho reincontrato Oscar per caso, abbiamo scherzato sul fatto che la mia affermazione gli avesse portato fortuna, visto il bottino di cui avrebbe fatto incetta di lì a poco.

Ora, che esista la capacità di portare fortuna ci credo poco e ci scherzo soltanto, ma sta di fatto che sabato 18 sono andato a trovarlo e a godermi le sue attenzioni di eccellente maitre e sommelier per un pranzo speciale con la mia compagna, e neanche tre giorni dopo la maison Krug ha effettivamente assegnato al Carroponte il titolo agognato.

A questo punto, Oscar mi riserverà sempre un tavolo, immagino.

Vado adesso oltre lo scherzo, e vengo invece al dunque, un po' per ribadire quanto già detto nel precedente post, e un po' per aggiungere alcuni dettagli nei quali si celano, a mio parere, le ragioni di questo successo annunciato.

giovedì 16 marzo 2017

Sapore e stupore all'Hostaria del San Lorenzo


Tra il passato che ti risucchia vertiginoso e il gusto dei piatti che ti eleva raffinato si distende l'esperienza di entrare, sedersi ed esplorare l'Hostaria del Relais San Lorenzo.

In piena Bergamo Alta, ma sarebbe più corretto dire Berg-heim, il toponimo celtico-germanico col quale da quasi tre millenni si appella la zona, l'altezza non è solo quella dei colli sui quali l'uomo scelse di risiedere, ma diventa oggi la qualità di una cucina che coniuga ricerca e sostanza, tecnica e solidità, inventiva e gusto.

martedì 17 gennaio 2017

Noter de Berghem: la casöla del santo


Non sappiamo se Sant'Antonio Abate arrivò mai ad assaggiarla, ma quel che è certo è che dal Ticino all'Oglio, il 17 gennaio è il giorno della casöla.

Il mitico piatto lombardo, comunemente identificato come milanese, è in realtà ben radicato in buona parte della Lombardia e si declina in modo differente a seconda delle condizioni del luogo di preparazione.

Se però, dalla provincia di Milano a quella di Bergamo cerchiamo il tratto comune, ecco che lo ritroviamo nella data del 17 gennaio, dedicata a Sant'Antonio Abate, nella quale si annodano diversi fili religiosi, culturali, antropologici e non ultimo culinari.

Al santo, che nacque e morì in Egitto, la sorte ha infatti con ironia riservato il ruolo di santo del freddo, della neve, del pieno inverno, associato al giorno entro il quale i maiali vanno uccisi e macellati.

Non a caso, negli ambienti rurali italici, il 17 gennaio è lo spartiacque tra le religiosissime festività natalizie e le profanissime scorribande carnevalesche, anzi, carnascialesche, con lo scialo delle abbondanti carni da consumare.

Poiché da Sant'Antonio Abate prendono il via tutti i movimenti monastici, alla sua figura venne associato il maiale, allorché ai monaci antoniani e poi agli altri ordini venne concesso il loro allevamento e consumo a partire dall'undicesimo secolo.

L'idea che il maiale rappresenti il maligno, le tentazioni carnali e il sudiciume satanico è un'interpretazione successiva, contraddetta tra l'altro da tutti i maiali rappresentati nell'iconografia del santo, maialini che di satanico non hanno alcunché.

Ovviamente, i monaci fecero presto a conferire l'incarico di allevare gli animali ai vari contadini nei dintorni dei monasteri, e furono questi ultimi a sviluppare nel tempo la preparazione delle carni ricavate.

Arrivati al 17 gennaio, dunque, bisognava non solo ammazzare questi animali, ma sbrigarsi a consumare tutto ciò che non era possibile insaccare o mettere sotto sale, perché si tratta di un tipo di carne dal veloce deperimento.

Per questo, la preparazione della casöla, così come la bollitura delle ossa del porco, sono tuttora rituali in queste zone e in questi giorni di freddo intenso.

E dico casöla e non cassoeula proprio per rimarcare, sin dal livello fonematico, la peculiarità della casöla bergamasca rispetto alla cassoeula milanese o comunque più occidentale dell'area in questione (e in effetti la pronuncia bergamasca, oltre a non marcare la s, tende verso il suono u, a differenza del milanese che scivola verso la e).

Perché ai piedi delle Orobie la casöla si fa esclusivamente con le costine e gli insaccati, cotechini o salamini, mentre la cassoeula milanese di solito prevede l'utilizzo di piedi, cotenne, orecchie e muso; in definitiva, il piatto sembra derivare da due versioni più antiche, una povera a base di cotenna e verze, l'altra più ricca che contempla addirittura carni avicole.

Confrontando le diverse ricette, si nota la differenza tra quelle che prescrivono di far cuocere prima la verza per poi aggiungere le carni, e quelle che invece raccomandano di unire la verdura solo dopo aver rosolato la ciccia: chi ha ragione?

Un motivo di questa differenza sta nella famosa regola della casöla, in base alla quale andrebbe usata solo la verza che ha preso il gelo, perché ne esce più dolce e tenera; così, le ricette che suggeriscono di partire dalla verza, prolungandone dunque la cottura, sono probabilmente retaggio di una preparazione con verze precoci, mentre le altre sarebbero più indicate per la verza brinata.

Sta di fatto che la verza ne deve uscire fondente, per cui il tempo di cottura sarà talmente prolungato - quanto incalcolabile - che anche se rosoliamo prima la carne l'effetto caramellizzato scompare del tutto per l'azione della lunga cottura tra le foglie umide.

Che la si chiami casöla o cassoeula, che la si faccia con le costine, i cotechini, i salamini o tutti i meravigliosi "scarti" del porco, che si usi verza precoce o brinata, e soprattutto che la si faccia il 17 gennaio o per tutto l'inverno - come faccio io! - il rito deve continuare, perché con la casöla non si tratta solo di cucinare, ma di testimoniare l'importanza e la storicità di una cultura intera.

lunedì 2 gennaio 2017

Ristorante Odissea, il sapore del nostos


Quando un ristorante etnico è capace di aprire davvero un varco bidimensionale e farti passare dal luogo in cui sei seduto a quello dal quale prende origine, puoi dire di aver fatto una bella esperienza.

Questo discorso però, nel caso di un ristorante greco, si tinge di sfumature ulteriori, perché l'uomo greco porta impresso nel suo codice genetico il dolore del viaggio, la nostalgia, il male per il nostos, lo stare lontano dal luogo natìo, la brama del ritorno, le avversità che lo ritardano e a volte l'impossibilità di realizzarlo.

Non a caso, a Bergamo, si è scelto il nome di Odissea per questo ristorantino che annoto nel taccuino dei luoghi più toccanti e silenziosamente piacevoli in cui sostare.

L'Odissea, infatti, è solo l'ultimo dei nostoi, dei viaggi di ritorno degli eroi greci dopo la guerra di Troia, narrati appunto nell'omonimo poema andato perduto, così da rendere irrealizzabile il nostos, il ritorno, nonché il racconto dello stesso tornare a casa, e gioire.

Ecco dunque il canto, un canto venato di afflati nostalgici, all'esule greco non resta che cantare il ricordo, il desiderio, la rievocazione di ciò che sta inciso nella memoria e che, nel ripetersi di gesti, parole, pensieri - di cui anche la cucina è fatta - si spera di poter rivivere.

Questo è il senso che il ristorante Odissea assume, non soltanto il ristorantino etnico per diversificare l'offerta e acchiappare clienti esterofili o studenti di lingue, ma la creazione di un luogo in cui riconoscersi, dove chi mette mano ai fornelli è originario di quella terra così come tutti i prodotti utilizzati e le ricette proposte.